Grazie a Paolo «Pablito» Rossi l’Italia cambiò umore

Paolo Rossi si era affacciato alla ribalta già quattro anni prima, al Mondiale argentino. Non era un calciatore appariscente. Al contrario, la sua principale qualità era che non lo vedevi arrivare. Rapidissimo. Con un senso unico della posizione e del gol. Con un nome e un cognome talmente diffusi da avere migliaia di omonimi, da consentire a chiunque di rivedersi in lui. Cresciuto in provincia: l’esplosione nel Vicenza, poi l’approdo a sorpresa al Perugia, quindi la squalifica per il coinvolgimento (marginale) nello scandalo scommesse, infine l’arrivo alla Juve: il tempo di festeggiare lo scudetto del 1982 con una manciata di minuti in campo, e di partire per la Spagna. Bearzot lo aspettò. Lo difese da tutto e da tutti, nelle prime tre deludenti partite. Gli diede fiducia anche dopo una prova non brillante con l’Argentina di Maradona. Gioì con moderazione quando Pablito si sbloccò contro il Brasile. Solo alla fine della semifinale con la Polonia non si trattenne, ed entrò in campo ad abbracciarlo.

C’è un’immagine in cui Rossi, tra una stretta e l’altra, si accorge di quella frase luminosa sul tabellone del Camp Nou, e la indica sorridendo felice. L’ha scritto lui stesso, nella sua autobiografia: “Ecco, mi piacerebbe si ricordassero di me con un solo fotogramma: maglia azzurra addosso, braccia aperte al cielo: Paolo Rossi, el hombre del partido”. E così noi lo ricordiamo: eternamente giovane. Altro che “scomparso ieri a 64 anni”; un ragazzino – Pablito – per sempre.

CORRIERE.IT

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