I gol che chiusero gli Anni di piombo

Alessandro Sallusti

La prima e ultima volta che ho intervistato Paolo Rossi è stata nel 1976. Entrambi avevamo vent’anni, io sognavo di fare il giornalista, lui il calciatore.

E in quel momento entrambi credevamo che il destino ci fosse avverso. Lui non riusciva a diventare titolare del Como, che gli preferiva Renato Cappellini, centravanti di scuola Inter di grande esperienza ma ormai verso la fine della carriera. Io non riuscivo a essere assunto dal quotidiano della città, L’Ordine, in cui da un paio d’anni mi occupavo di sport minori. Due riserve, insomma, che la sera cadevano in depressione come tutte le riserve. Capitava che io e lui ci consolassimo nell’unica pizzeria che a Como era aperta fino a tarda sera, chiamata – non era il vero nome – Il vunciùn, che in dialetto significa «lo zozzone», soprannome che ben identificava il posto. Lui lasciò disperato Como prima di me, e fu la sua fortuna. L’ho rivisto una sera quarant’anni dopo e nonostante nel frattempo fosse diventato il Pablito nazionale, si ricordava di quelle serate e pure – cosa paradossale – con una certa nostalgia.

Facciamo un balzo avanti nel tempo, 1984. Il Giornale per cui lavoro mi spedisce in Africa a fare un reportage sulla devastante carestia di quegli anni. Arrivo a fatica in una missione sperduta nel cuore del Mali, una piccola oasi popolata di bambini abbandonati che la mattina, scalzi, giocano con un pallone sgonfio in uno spiazzo terroso. Il missionario, che aveva insegnato loro due parole della nostra lingua, li riunisce e mi presenta. Uno di questi frugoletti si alza e mi dice: «Tu italiano? Tu Paolo Rossi».

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