Diciotto ostaggi della Libia. E del silenzio

di ALESSANDRO MILAN

Se perfino un uomo di chiesa arriva a invocare l’uso della forza, significa che la situazione è grave. Da centotre giorni diciotto marittimi di Mazara del Vallo sono a Bengasi, in Libia. Sono trattenuti per aver pescato in una zona di esclusivo interesse economico libico, dicono le milizie del generale Haftar. Di fatto sono sequestrati, incarcerati, pedine di un braccio di ferro internazionale. Pensate a questi lavoratori quando a Natale comprerete i pregiati gamberi rossi che provengono da quel mare. La Chiesa, dicevamo. Il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero, intervenuto ieri a Radio24, ha accusato il governo di scarso interesse.

Ha parlato di rabbia crescente dei familiari di questi uomini e ha chiesto esplicitamente di mostrare i muscoli. È quello che ha fatto la Turchia. Lo scorso 5 dicembre le truppe di Haftar avevano sequestrato l’equipaggio della nave turca Mabouka, per lo stesso contenzioso di pesca. Sapete come è andata a finire? Erdogan ha definito la Libia ‘obiettivo legittimo per una ritorsione’, et voilà, l’equipaggio del Mabouka è stato liberato dopo appena sei giorni.

Cosa sarebbe successo se a bordo dei due pescherecci italiani sequestrati, il Medinea e l’Antartide, ci fosse stato personale statunitense o israeliano? Probabilmente oggi non saremmo qui a snocciolare una conta infinita di giorni che passano, nel silenzio e nell’angoscia. Per carità, nessuno invoca un’azione militare, ma “mostrare i denti perché la diplomazia non serve più” per usare le parole di monsignor Mogavero è doveroso.

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