Renzi-Conte, teatrino di crisi

Dietro questo atteggiamento di “responsabilità” a oltranza c’è la richiesta al premier di un’iniziativa. Glielo hanno spiegato più volte: se si va avanti così, a navigare finché regge secondo gli schemi di Casalino, prima o poi si affonda, perché la ricostruzione è un affare politico serio; e allora chiamati in una stanza i leader della maggioranza, trova un accordo, guida tu anche un’operazione che arriva a un nuovo governo che coinvolga di più i partiti ai loro massimi livelli, anche dando all’operazione una nuova e più solenne narrazione nel rapporto col paese, che vada oltre i posti a tavola nei cenoni e i viaggi tra i comuni. Chiedono cioè a Conte di gestire una crisi pilotata con l’abilità di D’Alema, la voce empatica della Merkel, lo spirito di un domatore di leone con Renzi. Ovvero di diventare all’improvviso ciò che non è sfoggiando una capacità di leadership oggettivamente superiore alla sua storia. E anche alla sua cronaca quotidiana, fatta di “vedremo” e di promesse di “confronto”, nutrita di scetticismo verso la politica e i partiti e di fede assoluta verso il Dio della comunicazione, tra conferenze stampa e spifferi ai giornali. L’ultimo sul fatto che sarebbe pronto ad andare al voto.

In questo surf sull’acqua in ebollizione di un paese in crisi in cui dal dibattito politico è rimossa la parola “morti” (altra differenza non banale con i paesi di cui sopra) la tragedia è che non c’è un vero “stabilizzatore”, che si ponga il problema della way out, di una idea per andare avanti oltre la tattica, anche intesa come sfida. Ad esempio, se si mette davvero in conto il voto e anche il Pd ne è convinto, uno trova il coraggio di andare alle Camere per chiedere un voto di fiducia e, a quel punto, o si riparte senza questa confusione o ci si conta nel paese. Se il punto è la verifica, invece che sui giornali, ci si chiude in una stanza, si chiedono panini e caffè e non si esce finché non c’è un accordo.

Ma siccome invece tutti sanno che è difficile votare tra una seconda ondata che non finisce, una terza che ancora non comincia e la campagna sui vaccini da mettere a terra, tutto il gioco ruota attorno a un non detto perché la parola è ritenuta disdicevole: il famoso rimpasto di gennaio, a finanziaria approvata. Di questo, al fondo, si sta parlando. E proprio perché Conte è Conte, non è D’Alema, non è la Merkel né un domatore di leoni è restio in quanto pensa che è una trappola per favorire il suo trasloco. Se fosse un politico l’avrebbe già chiusa, assicurandosi un altro biglietto per Bruxelles. 

L’HUFFPOST

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