Quando il potere (centrale) è debole

c) La disarticolazione territoriale del potere. È il fenomeno che scaturisce non tanto dall’istituzione delle Regioni, quanto dallo smisurato accrescimento delle loro competenze deciso nel 2001, stravolgendo l’originale dettato costituzionale e procedendo in sostanza a una vera e propria mutazione silenziosa della natura dello Stato repubblicano. Tale disarticolazione si esprime con la maggiore evidenza nella disparità simbolica con cui si presenta il potere. Da un lato, nelle periferie, dominano presidenti delle giunte regionali, che forti della propria elezione diretta e dunque di un potere inscalfibile e virtualmente incontrollato, nonché circondati dalla riverenza di tutte le clientele locali, sono divenuti i padroni di fatto di tutta la politica che si svolge lontano da Roma, e si atteggiano a pomposi signorotti dei «propri» territori compiacendosi del titolo usurpato di «governatori». I quali «governatori» con fare da sopracciò non fanno che annunciare, dire la loro su tutto, intimare, obiettare e ogni due per tre minacciano di disobbedire alle norme dello Stato centrale. Dall’altro lato, a fronteggiarli, perlopiù un ministro qualunque, o mettiamo pure un presidente del Consiglio. Nel primo caso, cioè, quasi sempre un cristoincroce generalmente privo di una vera base e di veri poteri, messo lì dalla buona grazia di un capopartito o capocorrente; nel secondo il capo del governo che però è prigioniero di norme e consuetudini consociative che gli impediscono di essere il capo di nulla, dovendo passare il suo tempo piuttosto a mediare, concertare, smussare, fare «verifiche», riunire «tavoli». Soprattutto un capo del governo che all’iperlegittimazione dei «governatori» non ha da opporre nulla di analogo, impegnato com’è a guardarsi dalle pugnalate alle spalle della sua stessa maggioranza.

È attraverso l’insieme dei meccanismi perversi fin qui descritti che nel nostro Paese il comando politico del centro, la capacità del governo di decidere e di vedere eseguite le proprie decisioni, sono diventati del tutto evanescenti. Producendo così l’effetto di distruggere il caposaldo essenziale della democrazia: quello secondo il quale l’elettorato con il proprio voto si esprime a favore di un programma politico, decide cioè a maggioranza le cose da fare, e poi ha il diritto di vedere che esse siano fatte. In assenza di ciò — o di qualcosa che a ciò assomigli il più possibile — la democrazia produce fatalmente qualunquismo, antipolitica e alla fine un’irrefrenabile voglia dell’«uomo» o del «governo forte»: il quale spenga pure tutti i talk show che vuole ma almeno faccia arrivare i vaccini a tempo e a destinazione.

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