Google in tilt e il mondo si blocca
di MATTEO MASSI
Novanta minuti. Come una partita di calcio. Dall’ola da stadio degli studenti che hanno visto dissolversi la lezione di filosofia, perché Meet non funzionava più, alla frustrazione (con tanto di imprecazioni) di chi, sul lavoro (che fosse smart o in presenza), provava a inviare una mail. È caduto Google. Il googledown, con tanto di hashtag che a mezzogiorno di ieri è diventato virale, ha confermato – se ce ne fosse bisogno – che non sarà Internet a salvare il mondo. È bastata un’ora e mezza per capirlo. Al massimo può aiutarci a farlo, ma non possiamo dipendere solo ed esclusivamente dalla Rete. Che ciò accada nel pieno di una pandemia è una coincidenza che invita, inevitabilmente, alla riflessione.
Abbiamo creduto, magari all’inizio in modo innocente, che Google fosse solo un motore di ricerca. Un risponditore automatico e istantaneo a qualsiasi nostra domanda: a come si fa il sugo con i calamari, a quanto è durato il governo Craxi. E col tempo oltre alle nostre domande, ai nostri dubbi (non sempre sciolti dalle risposte in maniera esauriente), gli abbiamo affidato anche i nostri servizi. Talvolta anche quelli essenziali. E così il motore di ricerca – non solo, con le sue diramazioni, si è insinuato nelle nostre vite (consigliandoci cosa dovremmo comprare o dove andare in vacanza) – ma è diventato anche l’infrastruttura virtuale su cui far viaggiare i nostri servizi reali. La scuola, con la didattica a distanza, è solo l’ultimo degli esempi.
Se si ferma Google, come è successo ieri, si ferma la scuola, perché le lezioni viaggiano sulla piattaforma Meet, che è direttamente controllata da Google.
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