L’Europa dei diritti avanza

I due Paesi, da un lato sostenevano di essere giudici esclusivi del rispetto dei diritti nei loro territori; dall’altro eccepivano che un meccanismo per la verifica europea del rispetto nazionale di tali diritti esiste, ed è regolato dall’art. 7 del trattato sull’Unione europea. Ma questo meccanismo richiede una constatazione di violazione grave e persistente dei diritti, presa all’unanimità, e due Stati membri dell’Unione, appoggiandosi reciprocamente, possono impedirne il funzionamento.

Era dal 2018 che una proposta di regolamento «sulla tutela del bilancio dell’Unione europea in caso di carenze generalizzate riguardanti lo Stato di diritto negli Stati membri», che prevedeva la sola maggioranza qualificata per decidere, aspettava sui tavoli del Consiglio e del Parlamento europeo. Aveva anche fatto passi avanti, ma si era scontrata con l’opposizione delle due «democrazie illiberali». Queste si opponevano per far valere la propria sovranità sui diritti, obiettando che un’interferenza tanto importante dell’Unione negli ordinamenti nazionali avrebbe richiesto una modifica dei trattati europei. Ed in effetti la base «costituzionale» del nuovo Regolamento è piuttosto esile: sta nell’articolo 322 del trattato sull’Unione europea che riguarda solo le regole sulle «modalità relative alla formazione e all’esecuzione del bilancio».

Quella che viene chiamata «condizionalità» (cioè mettere insieme il bastone e la carota, il rispetto nazionale dei diritti con la fruizione dei benefici finanziari) è fondamentale perché costituisce uno degli strumenti principali per consentire agli organismi sovranazionali di controllare il rispetto dello Stato di diritto negli ordinamenti giuridici nazionali, dotandoli anche di denti per mordere. Solo in questo modo la democrazia e il diritto delle singole nazioni si arricchiscono. Solo in questo modo i governi dei vari Stati sono chiamati a rispondere agli organismi sovranazionali e globali, e questi ultimi possono far valere le dichiarazioni universali o sovranazionali dei diritti dell’uomo, che altrimenti rimangono lettera morta. È questo il motivo per il quale non solo nell’Unione europea, ma in tutte le organizzazioni globali si cercano «linkages» (collegamenti) che, unendo benefici a limiti, possano rendere effettivi i principi stabiliti universalmente per la comunità internazionale.

Il «compromesso Merkel», che ha fatto uscire la decisione dall’«impasse» creata dall’impuntatura sovranista ungherese e polacca, ha persino migliorato le modalità di attuazione del Regolamento, prevedendo che la Commissione adotti linee guida, regolando l’istruttoria a carico di chi viola lo Stato di diritto e aprendo la strada all’impugnativa alla Corte di giustizia (così giurisdizionalizzando il conflitto).

L’Unione europea, che è già un gigante regolatorio, si avvia a diventare un importante intermediario finanziario (sta raccogliendo sui mercati 750 miliardi di euro e domani dovrà arricchire la propria potestà fiscale, per poter erogare risorse che consentano di uscire dalla crisi). Aumenta così la sua capacità di pressione sugli Stati, attraverso la finanza, perché questi rispettino i diritti. E si afferma anche una nuova e più ricca declinazione della democrazia: chi esercita il potere politico non deve solo rispondere al proprio elettorato, ma deve anche rispettare i principi comuni del diritto, fissati nei trattati, insieme con gli altri Paesi.

Il «compromesso Merkel» conferma quel che aveva scritto nel 1976 uno dei padri fondatori dell’Unione europea, Jean Monnet, che la costruzione europea sarebbe stata la somma delle soluzioni alle sue crisi.

CORRIERE.IT

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