Tutto su Mr. Amazon
Dunque, “di che si occupa Amazon” non era alla fine una domanda oziosa. E se all’Agenzia delle entrate dovessero trovare il codice Ateco per i ristori potrebbero impazzire. Più che un’azienda è un ecosistema dove business apparentemente irrelati si parlano fitto fitto nella testa del fondatore. O, per dirlo con la lettera del 2014, “sono abbastanza sicuro che siamo la prima azienda che ha scoperto come trasformare la vincita di un Golden Globe in un aumento nella vendita di attrezzi per il bricolage e di salviette umidificate per neonati”. Si riferisce al premio per la serie Transparent, su un padre che in vecchiaia si rivela trans, e ai suoi effetti collaterali. Ovvero attivare il circolo virtuoso che fa, più o meno, così: ridurre la quantità di cartone dei pacchi o il tempo per spedirli consente risparmi; che a loro volta si trasformano in ribassi sui prezzi; che aumentano il volume delle vendite; che riducono i costi fissi (non cambia molto far funzionare un server per mille o diecimila transazioni), consentendo ulteriori ribassi sui prezzi. “I clienti li amano e, nel lungo periodo, fanno bene anche a voi” scriveva nel 2000 Bezos agli azionisti, avvisandoli: “Aspettatevi di vederci ripetere questo loop”. Ad infinitum. E così è stato. Ma se è vero che un abbonato Prime spende in media 1.400 dollari all’anno contro i 600 di uno non Prime, bisogna inventarsi sempre nuovi motivi per farlo iscrivere. Quindi la musica. Lo spazio illimitato per archiviare le foto. E via aggiungendo. Soprattutto i film, e ci siamo arrivati, che se vincono premi più gente vuole vederli, anche a costo di abbonarsi. Facendo ripartire quel meccanismo che, dal 1997 della quotazione a oggi, ha moltiplicato il valore delle azioni di 170 volte, per cui se avevi investito 1.000 dollari ora ti compravi un monolocale.
Filosofia a parte, l’incognita rimane l’uomo. Biografia minima della sua versione beta. Jeffrey Preston Jorgensen nasce a Albuquerque, New Mexico, nel 1964 da una studentessa diciassettenne che l’ha avuto col gestore di un negozio di bici che si esibiva sul monociclo in un circo e dal quale divorzia quasi subito. A quattro anni il nuovo compagno Miguel Bezos, esule cubano che arriva in America con una giacca fatta di stracci, lo adotta – com’è successo a Steve Jobs. Altro adulto di riferimento è il nonno materno, responsabile di un’agenzia atomica federale, nel cui ranch in Texas il piccolo Jeff passerà estati a castrare tori e aggiustare tubature. A riprova di una precoce capacità analitica il ragazzino, esasperato dal fumo delle sue sigarette, un giorno vaticina alla nonna che, “considerando due minuti per boccata, avrai sottratto nove anni dalla tua vita”. Lei si mette a piangere, il nonno lo ammonisce: “Jeff, un giorno ti accorgerai che è più difficile essere gentili che intelligenti”.
Primo della classe al liceo in Florida dove la famiglia si è trasferita, gli affidano il discorso di commiato in cui immagina un futuro in cui tutti dovranno trasferirsi su un altro pianeta perché la Terra non avrà abbastanza risorse. Poi, a Princeton, vagheggia studi di fisica teorica per poi ripiegare su ingegneria elettronica. Infine a New York lavora per l’hedge fund D.E. Shaw col compito di individuare “opportunità di investimento” nel mondo nuovo internettiano. È lì che, dopo aver spiegato agli amici il suo women flow (parafrasi del deal flow per cui i broker non prendono in considerazione investimenti sotto una certa cifra), secondo il quale avrebbe accettato solo candidate “in grado di tirarlo fuori, al bisogno, da una prigione del Terzo mondo”, conosce MacKenzie Scott, ex assistente della scrittrice premio Nobel Toni Morrison, e la sposa. Di quel periodo l’agnizione più importante è questa: “Mi accorsi del fatto che l’utilizzo del web cresceva del 2.300 per cento all’anno”. Così, applicando il suo “metodo di minimizzazione dei rimpianti” (“Quando avrò 80 anni mi pentirò di aver lasciato Wall Street? No. E invece di essermi perso l’inizio di internet? Sì”) prende la decisione che lo traghetterà verso la sua prima release: aprire un negozio online.
Quando nel ’94 affitta gli uffici a Bellevue, sobborgo di Seattle dove ha sede anche Microsoft, sono lui, MacKenzie e un programmatore. La sua invenzione logistica più significativa, in quei giorni, è l’introduzione di ginocchiere per non farsi male quando infila i libri nei pacchi accucciato a terra. A lungo guiderà una Honda Accord largamente sottodimensionata rispetto alle sue finanze. Una frugalità che è rimasta nell’ethos aziendale a giudicare da come guardano i neoassunti che commettono l’impudenza di stampare documenti su un lato solo anziché su due o peggio ancora quelli che chiedono di volare in business. Vecchia fissa anche di Gates (“Comunque non si arriva prima!”) che con mister Amazon condivide soprattutto un certo millenarismo (“Siamo sempre a sei mesi di distanza dal fallimento”). Bezos lo esprime nel culto del Giorno 1, che nella vita delle aziende corrisponde allo start-up, l’avviamento. Seguito dal 2, la stasi. Dal 3, l’irrilevanza a cui si accompagna il 4, “straziante, dolorosissimo declino”, che precede il 5, la morte. L’importante, quindi, è non uscire mai dalla prima, energetica casella. Per farlo bisogna concentrarsi non tanto sulla concorrenza (che una volta che l’hai staccata ti puoi rilassare e a quel punto sei fottuto) quanto sui clienti, per definizione incontentabili.
Il messaggio è la pietra angolare su cui è edificata la sua chiesa, a partire dal nome dell’edificio che ospita il suo ufficio (Day One, appunto) ed è stampigliato anche nei bagni dei magazzini. E ogni anno le lettere ai dipendenti si concludono con un “Ricordatevi che siamo sempre al Giorno 1”, gemello diverso del motto dei Navy Seals (“L’unico giorno facile era ieri”). Religione del cliente che si estrinseca al massimo livello con invenzioni tipo il pulsante Mayday sui tablet Fire Hd dove, se qualcosa va storto, basta premerlo e qualcuno interviene direttamente sull’apparecchio. Assistenti così servizievoli che in pochi mesi avrebbero totalizzato almeno 35 proposte di matrimonio, pulsione provata di recente anche dal cronista, alle prese con uno spinoso problemino di software, verso l’impareggiabile Emanuela da Cagliari a cui manda i migliori auguri.
Poi, però, arriva il gennaio 2019. Il tabloid National Enquirer spara la bomba: Bezos ha un’amante. Si tratta di Lauren Sanchez, moglie a sua volta di un celebre agente di Hollywood che il fondatore, complice il coinvolgimento creativo in Amazon Videos, ha cominciato voluttuosamente a frequentare. Con tutti gli ammennicoli, compresa la villona a Beverly Hills e il farsi vedere in giro con Matt Damon. Il riassunto migliore è di un cinematografaro: “Se c’è un’inaugurazione Bezos non manca mai. Andrebbe anche all’apertura di una busta!”. In effetti, dal 2017, quando Forbes lo laurea il più ricco del mondo, l’uomo è cambiato. Narra la leggenda, riportata dal New Yorker, che pochi giorni dopo l’exploit Bill Gates lo inviti a pranzo proponendo come possibili giorni “martedì o mercoledì”. La segretaria verifica: sono entrambi disponibili. Ma Bezos non ci sta: “Facciamo giovedì”. Una cazzimma inedita. Poco cibo, tanti pesi: gonfia. E si rade in maniera più radicale accentuando la somiglianza con Jean-Luc Picard, il comandante di Star Trek idolo di gioventù che gli ha ispirato il computer parlante Alexa e il nome da dare al cane, Kamala, che non ha niente a che vedere con la neo-vicepresidente e tutto con la kriosiana che si innamora del pilota intergalattico.
Pochi giorni dopo il lercio scoop, Bezos annuncia il divorzio dalla moglie, con la quale ha quattro figli. Di lì a poco denuncia pubblicamente un tentativo di estorsione per non pubblicare foto compromettenti (il meglio tweet di quei giorni è: “Le dick pic, foto intime, di Jeff Bezos rivelano che ha palle di acciaio”). Giornalacci lo fotografano in costume con fantasia di polpi a Saint-Tropez e raccontano che ha conosciuto i genitori della nuova bella mentre si scopre che le schermate dei messaggini compromettenti le avrebbe vendute, per 200 mila dollari, proprio il potenziale cognato. Ad aprile il divorzio viene ufficializzato: Jeff si tiene il 75 per cento delle azioni e la totalità dei diritti di voto mentre a MacKenzie ne va un quarto, quasi 36 miliardi, sufficienti per farla diventare la donna più ricca del mondo e farle annunciare di aver ripreso in mano un romanzo a lungo abbandonato. Gli analisti temono che le vicende private possano offuscare la leggendaria razionalità dell’uomo, ma vengono prontamente rassicurati dai risultati di Borsa.
Che però non azzerano la cattiva stampa. Nel S-Team, il sinedrio di 18 senior che gestisce l’impero amazoniano, c’è una sola donna, alle risorse umane, e nessun nero. L’allergia verso i sindacati è notoria, alimentata anche da episodi come quello di vent’anni fa, quando una union locale provò a organizzare 400 addetti all’assistenza clienti a Seattle e l’azienda li mandò tutti a casa. Nel 2018 Bernie Sanders propone la legge Stop Bad Employers by Zeroing Out Subsidies, che in acronimo fa Stop BEZOS, accusato di pagare così poco i propri dipendenti da costringerli a chiedere i sussidi statali. I famigerati working poor. Una campagna che lo convince non solo ad alzare i salari minimi a 15 dollari l’ora, un sogno per tanti americani, ma anche a sfidare i suoi concorrenti a fare almeno altrettanto. Resta l’imbarazzo delle tasse. In quello stesso anno, parliamo di imposte federali sul reddito, il fondatore non ha pagato un dollaro. Un po’ come Trump che però lo chiama Jeff Bozo, “coglione”, reputandolo il mandante del trattamento ruvido che il Post gli ha riservato in questi anni e contro cui si vendicherà facendogli revocare una mega-commessa da 10 miliardi di dollari per servizi cloud al Pentagono. Bezos fa ricorso, ma non ci perde il sonno.Anche perché quello della pandemia è stato forse l’anno più ricco di sempre. Non potendo uscire di casa, l’everything store è diventato l’emporio dell’umanità. E mentre i supermercati tradizionali, travolti dagli ordini, ci mettevano settimane per consegnare, ad Amazon bastavano giorni.
Quindi che giudizio diamo dell’uomo e della sua creatura a dieci anni precisi dallo sbarco italiano? Raramente le due entità sono state così compenetrate. Al punto che il Capo ha creato una nuova figura, il consulente tecnico, ribattezzato Jeff-bot, che lo segue passo passo per almeno un anno, assorbe la sua visione e prova a infonderla ai livelli gerarchici più bassi. Tra i 14 Principi di leadership annunciati svettano “Mai rispondere: non è compito mio”, “Inventa e semplifica” e il fondamentale e impervio “disagree and commit“, sii pure in disaccordo, dillo, ma una volta detto impegnati come se l’idea fosse stata tua. Bezos ha costruito la sua azienda come un generale gestisce West Point. Ai potenziali dipendenti fa sapere: “Si può lavorare a lungo, intensamente o con scaltrezza, ma da noi non puoi limitarti a scegliere due delle tre opzioni”. Le vuole tutte. Per quanto riguarda il richiamo del nonno alla gentilezza, se n’è andato con lui. “Sei pigro o solo incompetente?”, “Questo documento è stato chiaramente scritto dalla squadra B. Qualcuno mi può far avere quello della squadra A?”, “Perché mi rovini la vita?” sono solo alcune delle risposte al curaro, che rievocano il panico dei dipendenti di Microsoft alla prospettiva di trovarsi in ascensore con Bill o di quelli di Apple nel fronteggiare Jobs, l'”agguerrito buddista” della memorabile definizione di Evgeny Morozov. Ma forse bisogna arrendersi: se sei un poeta fai un’altra carriera.
Eppure, da giovane, Bezos giurava di amare Kazuo Ishiguro, il Nobel dell’introspezione, l’autore di Quel che resta del giorno. C’è quello e il suo contrario. Da un formidabile numero consecutivo di anni Amazon risulta l’azienda che gode della fiducia dei consumatori americani più alta di sempre. Anche più dell’esercito. Nonostante che il segretario trumpiano al tesoro Steven Mnuchin abbia dichiarato, non senza ragioni, che ha “distrutto l’industria al dettaglio”. Una critica largamente condivisa anche dal quarantaseiesimo presidente se, ancora pochi mesi fa, Joe Biden ne parlava come epitome del “capitalismo fuori controllo”.
Da anni le antitrust si interrogano su come mettere un freno a Amazon ma, come la giurista Lina Khan ha osservato nel 2017 sul Yale Law Journal, “è come se Bezos avesse immaginato la crescita dell’azienda disegnando prima le leggi sulla concorrenza e poi si fosse inventato strade per bypassarle senza sforzo”. Perché il sintomo classico del comportamento monopolista è di far alzare i prezzi, mentre Amazon li abbassa. Ma ciò non ha impedito alla Commissaria europea Margrethe Vestager di istruire un’indagine sull’ipotesi che l’azienda abbia abusivamente utilizzato i dati dei venditori terzi sulla piattaforma per favorire i propri prodotti. Balla una multa pari al 10 per cento del fatturato, dunque di oltre 20 miliardi di euro. Le azioni sono andate giù sull’annuncio dell’efficacia del vaccino Biontech-Pfizer, che un giorno farà uscire la gente di casa, ma dopo due giorni hanno ricominciato a salire.
Non risulta che Bezos abbia cambiato la sua abitudine di godersi un risveglio lento e di non fissare mai riunioni prima delle 10. Come le sue Lettere ai dipendenti confermano è uno stratega, della tattica non sa cosa farne. Per rendere il concetto più plastico ha anche stanziato 42 milioni per costruire, sopra al suo ranch texano, un orologio Long Now pensato per durare 10 mila anni, che muoverà il braccio avanti ogni cento. D’altronde, che alla Casa bianca ci sia un democratico o un repubblicano, la Corte dei conti americana ha calcolato che sulle sedici principali agenzie federali solo l’11 per cento ha già fatto la transizione nel cloud. E in Italia, per dire, Amazon è sinonimo di commercio elettronico ma sul totale vende solo il 7 per cento delle merci. C’è gran margine di crescita. Come ha fatto notare Stratechery, un sito informatissimo sugli scenari tecnologici, il master plan è chiarissimo: “Amazon vuole fornire la logistica per chiunque e qualsiasi cosa, perché se tutto passa attraverso di lei sarà nella posizione per raccogliere tasse su uno stupefacente numero di transazioni”. Un trilione di fiorini.
Personalmente vivo un sentimento odi et amo credo comune a molti: detesto il paradigma, adoro il prodotto. L’ha detto benissimo sull’Atlantic Franklin, il primogenito dei fratelli Foer: “Jeff Bezos ha vinto il capitalismo. La domanda per la democrazia è: ci sta bene?”. Compreso il fatto che i magazzinieri facciano una gara sempre più parossistica con i robot o i corrieri accelerino, chiedete a Ken Loach, per non farsi fregare dai droni? Bezos vince perché ragiona a decadi. La politica dovrebbe almeno riuscire a superare la fine del mese. Altrimenti non c’è partita.
REP.IT
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