Noi che ormai viviamo tutti «nel frattempo», bipolari tra paura e illusioni
Il verbo «rinascere», in particolare, è una scelta curiosa per lo slogan della campagna. «Rinasceremo» come se adesso fossimo morti, come se avessimo trascorso l’ultimo anno da moribondi.
È l’ennesimo segnale di ciò che abbiamo fallito dal principio: accogliere una variabile nuova e ingombrante nelle nostre esistenze, rispettandola, ma riuscendo anche a percepire la continuità con le nostre abitudini di prima e con quelle che immaginiamo per dopo. Non vedere il virus soltanto come un problema in sé e per sé, ma riconnettere la sua presenza agli altri innumerevoli problemi che ci trasciniamo dietro.
È vero, con il passare dei mesi abbiamo adattato molti comportamenti al nuovo contesto, ma il nostro modo di relazionarci alla pandemia è rimasto, nella sua essenza, bipolare: allarme o nulla, chiuso o aperto, condanna o salvezza. Morte o rinascita. Ora la svolta in chiave provvidenziale della comunicazione pubblica, unita al simbolismo del passaggio di anno rischiano di metterci di nuovo in pericolo, rafforzando l’impressione che ormai sia passata.
Ma la pandemia non rispetta il calendario gregoriano.
E
comunque vada con il vaccino, per quanto rapidi ed efficienti (e
disposti a vaccinarci) ci dimostriamo, il nostro futuro prossimo non
sarà univoco, come subliminalmente ci viene suggerito.
Il 2021
non assomiglierà a un passo da dentro a fuori la linea d’ombra. Molto
più realisticamente si presenterà come una sovrapposizione di
condizioni, alcune congiunturali, altre in contrasto.
Sarà un
«nel frattempo» prolungato, che dovremo gestire. Perché nel frattempo la
curva si abbassa, ma lo fa lentamente come sempre. E non è affatto
detto che queste feste, che da dentro ci appaiono così misere e
limitate, non determinino un’altra inversione di tendenza.
Le
norme sono state introdotte tardivamente e questa volta sono più
complicate del solito. La loro complicazione permette un margine di
elusione piuttosto ampio. Gli aggiramenti, i piccoli stratagemmi,
comprensibili dalla prospettiva del singolo, quasi innocenti, hanno un
effetto potenziale molto diverso su larga scala. Una miriade di eventi
di microdiffusione che potrebbero sommarsi, come è già avvenuto negli
Stati Uniti con il Thanksgiving nonostante le raccomandazioni
istituzionali.
Ma il Thanksgiving, dura tre giorni ed è stato
responsabile di un sussulto della curva, noi attraversiamo una
quindicina di giorni delicati in fila, giorni fatti di saluti, di auguri
e brevi incontri, due a due, quattro a quattro, sei a sei; giorni in
cui ci stiamo inventando, ognuno per sé, una soluzione pandemica
accettabile.
Il tracciamento fallito
Nel
frattempo c’è l’immancabile ritardo nel disegnare con chiarezza ciò che
sarà dal 7 gennaio in avanti. Il quadro proposto, con le scuole di nuovo massicciamente in presenza,
potrebbe rivelarsi in contraddizione con l’andamento dei contagi. Dopo
le feste, e con in circolo una variante più rapidamente diffusiva (che a
livello epidemiologico può essere perfino peggio di una variante più
letale), rischiamo di aprire ancora una volta in fase di espansione.
Ma
se a settembre l’incremento giornaliero dei positivi era sull’ordine
del migliaio, adesso è ancora vicino ai diecimila. Cosa è cambiato da
allora, a parte il fatto che fa molto più freddo e in molte regioni è
impensabile fare lezione con le finestre spalancate? Cosa è cambiato, a
parte la concomitanza attesa con le altre infezioni respiratorie e con
l’influenza a complicare il tutto?
Ciò che è davvero cambiato è
che è stata abbandonata ogni strategia seria di mitigazione, che non sia
quella delle chiusure alternate. Parlare di testing e tracciamento
suona ormai obsoleto. Le «t» hanno funzionato per il marketing di
aprile, adesso c’è la narrazione più seducente del vaccino.
Ma
se qualcuno pensa che la fantasia di gestire il contagio fosse sbagliata
dal principio, perché «il virus è troppo veloce» o perché «ci sono
troppi asintomatici per tracciare», be’, si può proporre un modo diverso
di vederla: non siamo stati in grado.
Non siamo stati in grado
Si potevano fare molte cose, e meglio: screening,
pianificazione più accurata, implementazione della tecnologia,
rafforzamento delle infrastrutture di monitoraggio. Capire i tempi e
rispettarli. Ma non vale più la pena di accanirsi su questo. Suona
vecchio, suona troppo 2020. Appena abbiamo intravisto lo «spiraglio di
luce» abbiamo rinunciato. Avanti con il distanziamento quindi, solo con
quello e con le sue conseguenze sociali ed economiche, fino a quando
saremo tutti immuni. Immuni, già.
Nel frattempo, però, resta da
misurare la disponibilità reale all’idea di vaccinazione del popolo
italiano. Per anni la diffidenza nei vaccini è aumentata nel nostro
paese, come un’epidemia prima dell’epidemia. Il clima antivaccinale è
stato assecondato più o meno apertamente da certe forze politiche, ormai
è endemico, soprattutto in determinate comunità, e sta per presentarci
un conto severo.
Le uscite improvvide degli ultimi giorni da
parte di certi personaggi di spicco (di spicco per motivi che non hanno
nulla a che fare con la competenza medica) sono solo i primi segnali di
qualcosa che nel 2021 scopriremo, con finto stupore, molto più comune di
quanto vogliamo credere.
Nel frattempo, mentre i camion dei
vaccini sfrecciano per l’Europa, il virus è arrivato nel luogo più
remoto di tutti, il più facile da proteggere almeno in linea di
principio: una base scientifica in Antartide. Anche questa è una metafora su cui vale la pena di riflettere.
Comunque vivere
Nel frattempo, mentre attendiamo il nostro turno per l’immunità, dovremmo sforzarci di non spingere sempre più lontano da noi l’ipotesi di questa malattia. E provare, invece, a fare nostre le parole difficili di Susan Sontag, quando ci ricorda che «la malattia è il lato notturno della vita, una cittadinanza più gravosa», che «ogni nuovo nato detiene una duplice cittadinanza, nel regno dei sani e nel regno degli infermi. E per quanto preferiremmo tutti servirci soltanto del passaporto migliore, prima o poi ciascuno di noi è costretto, almeno per un certo tempo, a riconoscersi cittadino di quell’altro luogo».
Nel frattempo, ricordiamoci che questo vivere non è e non è stato un essere morti né comatosi, se non per i troppi che sono morti davvero. Per noi altri è vivere un po’ meno magari, un po’ più faticosamente, ma è comunque vivere.
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