Per un Paese normale serve un governo normale
di Carlo Verdelli
Come tanti amori naufragati per la violenta rottura di ritmi di vita consolidati, anche la famiglia politica in capo alla nostra comunità, quella che dovrebbe tirarci fuori da questo tunnel, sta scoppiando e nel modo peggiore. Il coronavirus ringrazia e segna un altro punto a favore nella sua devastante campagna d’Italia: un Paese che ha perso le poche certezze che aveva, che ancora non sa quanti studenti andranno a scuola il 7 gennaio, che ormai va in confusione ad ogni cambio di colore sulla mappa, ieri rossa, domani arancione, poi gialla per due giorni, a seguire un weekend di serrata ma il 18 riaprono le piste da sci, forse.
Con 75 mila morti e più di mezzo milione di ancora positivi (a fine settembre erano 10 volte meno), un governo normale non perderebbe un secondo in chiacchiere e rimanderebbe le piccole grandi manovre di palazzo a momenti meno fatali. Con le più carenti provviste di vaccini e una delle più basse percentuali di vaccinati al mondo, un governo normale farebbe un rapido esame di coscienza e si butterebbe a recuperare il tempo sprecato. E invece l’onnipresente commissario a tutto, l’ineffabile Arcuri, candidamente comunica che no, non è ancora stato deciso quanti e dove saranno i centri per l’iniezione anti Covid. L’Europa aveva chiesto un piano in materia per ottobre 2020, ma per noi non è mai troppo tardi, anche se in realtà è già tardissimo. Ancora, con un programma per ottenere i soldi del Recovery fund da presentare entro febbraio, pena perdere anche i 27 miliardi di inizio lavori, un governo normale sceglierebbe (avrebbe già scelto) i cardini su cui farlo poggiare senza estenuanti mediazioni.
Il problema numero uno è che non abbiamo un governo normale, non lo è mai stato dalla sua genesi, ha trovato un senso nella gestione della prima emergenza, l’ha perso durante l’estate dell’irresponsabilità e da allora non l’ha più recuperato. Il problema numero due è che una crisi politica in questo tempo e in queste condizioni ci renderebbe improbabili agli occhi dell’Europa, alimentando in sovrapprezzo quella disunità d’Italia di cui l’unico che sembra seriamente preoccuparsi è il presidente Mattarella.
È il momento dei costruttori, ha detto nel discorso di fine anno, e tutti i demolitori si sono complimentati con lui. Un’altra cosa ha aggiunto, il capo dello Stato, a beneficio di chi immagina incastri di potere che comprendano il Quirinale: non contate su di me, questo è il mio ultimo anno. Il che si porta dietro il terzo problema che abbiamo: il tempo per una soluzione che contempli eventuali elezioni, complicate dal virus che non recede, sarebbe da qui ad agosto, inizio del semestre bianco. Altrimenti, bocce ferme fino al 2022. Che ne sarà di noi da qui ad allora? Che ne sarà di un Paese con un debito pubblico al 160 per cento, una disoccupazione crescente sia nell’impiego in chiaro sia in quello tra il grigio e il nero, una povertà galoppante e una pandemia che non promette di arrendersi nel breve?
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