Crisi di governo, i compromessi al ribasso e il fallimento che nessuno può permettersi

di Francesco Verderami

La crisi del Conte II non si è ancora formalmente aperta, la crisi politica dell’alleanza giallorossa si trascina invece da tempo e i segni di decadimento erano ormai visibili. In questi casi le colpe sono sempre collettive, ma chi ha la responsabilità di guidare una coalizione sa di doversi fare carico degli oneri maggiori. In un contesto sempre più deteriorato, risulta evidente come Matteo Renzi abbia deciso di sfruttare la situazione per stressare gli equilibri della maggioranza. Nel crescendo polemico con Palazzo Chigi delle ultime settimane, i problemi reali che il leader di Italia viva aveva inizialmente sollevato hanno finito per lasciare il posto a un conflitto con Giuseppe Conte, con l’obiettivo di far capitolare il suo esecutivo.

Da mesi gli alleati, a partire dal Pd, avevano chiesto al presidente del Consiglio di cambiare passo e di farlo presto, tuttavia la verifica — che serviva a registrare il programma e la squadra di governo — aveva continuato a protrarsi senza dare risultati. Complice l’emergenza pandemica, Conte riteneva di poter resistere alle pressioni: protetto da una bolla che era insieme un paradosso, immaginava che una sorta di decisionismo misto a immobilismo lo avrebbe reso immune dagli attacchi. Finché Italia viva ha deciso di giocare in proprio, contestando le decisioni del premier e utilizzando l’approssimazione e le incongruenze dei progetti presentati, come testimoniato dalla prima bozza del Recovery plan.

In una prima fase i democratici e anche un pezzo del Movimento avevano pensato di poter cavalcare la tigre renziana per raggiungere gli scopi che si erano proposti con la verifica. Non avevano fatto i conti con l’indole dell’alleato, che al pari di Massimo D’Alema considera capotavola il posto dove sta seduto. Così il confronto sulle priorità di governo si è trasformato in uno scontro personale. E questo duello ha finito per subire una torsione che ieri ha raggiunto l’acme, quando il premier ha fatto sapere a Iv che se lo avesse sfiduciato non avrebbe più potuto far parte di un suo governo. Al di là della sfida tra Conte e Renzi, la vicenda dimostra che la coalizione giallorossa — nata nel 2019 per impedire a Matteo Salvini di andare alle elezioni — non c’è, o quantomeno non c’è ancora: non si è strutturata, non ha maturato la solidarietà che accomuna partiti tra loro alleati, appare priva di una visione strategica ed è divisa da divergenze ideologiche che si manifestano su vari temi, come per esempio il Mes.

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