Conte sotto la lente di Mattarella: gli scenari che si aprono per il governo

di Marzio Breda

La sorte del governo, e l’obbligo del Quirinale a gestire la crisi qualora si trasformasse da virtuale in formale, dipenderà da quello che Giuseppe Conte dirà tra oggi e domani in Parlamento. E anche da come lo dirà. Ecco che cosa vuole verificare Sergio Mattarella dopo la gran confusione sui negoziati in corso, per valutare quali possibilità abbia sul serio la resistenza del premier ad abbandonare la nave semiaffondata dell’esecutivo e, nell’ipotesi di un salvataggio in extremis, di assicurarsi per il futuro una navigazione non avventurosa. Non troppo, almeno, perché in questa stagione di plurime emergenze non possiamo permettercelo. Di sicuro, per lui, c’è solo che quello di martedì non sarà l’epilogo, ma l’inizio di una nuova fase dall’esito incerto.

Negli ultimi giorni un numero variabile di «responsabili» il premier lo ha trovato, anche se non sembra arrivare alla soglia che sperava. Perciò diventa politicamente cruciale per lui vedere come si comporterà Italia viva, che ha ventilato una disponibilità ad astenersi alla prova della fiducia, formula che nella storia repubblicana è sempre stata «un atto con cui si coopera al varo di un governo» (parecchi gli esempi, basta pensare all’Andreotti III, del 1976, maturato sulla «non sfiducia» del Pci).

E qui nasce il punto interrogativo che inquieta pure il Quirinale: come parlerà Conte a Renzi? Si taglierà i ponti dietro le spalle, rivolgendosi al senatore di Firenze con l’asprezza che usò verso Salvini, il 20 agosto 2019, quando il leader leghista annichilì l’alleanza gialloverde? O ricorrerà a qualche astuzia retorica, ignorando con nonchalance (ma ne servirebbe davvero tanta) l’accusa di aver creato «un vulnus democratico», per tenere la porta aperta a un’ipotetica collaborazione con Iv, se non addirittura al recupero del vecchio patto?

Tocca al premier sciogliere questi nodi, decisivi anche per gli scenari ai quali si sta preparando il capo dello Stato, che in questa fase si astiene del tutto dall’interferire perché non sia messo in dubbio il proprio ruolo istituzionale di garanzia, nel caso la crisi diventasse conclamata e dovesse gestirla in prima persona.

Ora, dato che la Costituzione non impone che i governi siano tenuti a battesimo da una maggioranza assoluta, che è di 161 voti al Senato, a Conte e ai suoi soccorritori riuniti sotto la bandiera di un gruppo parlamentare può bastare la maggioranza semplice (o relativa). Traguardo che si conquista con un voto in più di quelli messi insieme dall’opposizione. Esistono una trentina di precedenti, compresi un paio legati all’era berlusconiana, che vincolano Mattarella ad accettare — comunque lo giudichi — un simile risultato. Dal quale, per inciso, il premier uscirebbe automaticamente confermato al timone di Palazzo Chigi, senza bisogno di dimettersi e rinascere sotto la voce «ter». Tanto che, secondo la prassi, Conte potrebbe perfino non sentirsi in obbligo di salire al Quirinale, se non per cortesia, o per proporre un rimpasto, peraltro ampiamente prevedibile.

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