Le scelte di leader e partiti: una difficile stabilità
di Paolo Mieli
Chi avrebbe mai immaginato a giugno del 2018 che un avvocato cinquantenne di Volturara Appula, sconosciuto ai più, nel giro di due anni e mezzo avrebbe messo Ko i due giovani pugili più talentuosi della politica italiana? È accaduto. Anche se il 27 ci sarà una possibile rivincita. Nell’agosto del 2019 è toccata a Matteo Salvini. Adesso a Matteo Renzi. Sappiamo benissimo che la partita decisiva si giocherà nelle urne quando si terranno le elezioni. Ma al momento si può affermare che Giuseppe Conte, sia pure con qualche inevitabile ammaccatura, è uscito vincitore dai rischiosissimi match con i «due Matteo». E l’intero Parlamento da ora in poi dovrà smettere di sottostimare le sue capacità.
Nel primo scontro, quello dell’estate ’19, Conte prese in contropiede l’avversario Salvini mettendo sul tavolo un’alleanza M5S-Pd. Alleanza all’epoca inimmaginabile ma che in realtà era stata preparata da tempo. Quell’intesa parve allora nascere da un’iniziativa di Renzi, ma molti già a quei tempi sapevano che il senatore di Rignano non aveva fatto altro che intestarsi un progetto messo a punto da Dario Franceschini. Il segretario del Pd, Nicola Zingaretti, in quei giorni pose come unica condizione che, per decenza, a guidare il nuovo governo non fosse lo stesso presidente del Consiglio che aveva guidato il gabinetto con la Lega condividendone ogni iniziativa. Ma non ottenne soddisfazione. Nei mesi seguenti, Zingaretti si ricredette su Conte e, anzi, scoprì che si poteva presentarlo come il «nuovo Prodi», un leader adatto a guidare l’intero centrosinistra nelle future tornate elettorali.
A quel punto si mosse l’altro Matteo deciso a disarcionare il presidente del Consiglio prima che prendesse definitivamente corpo il disegno di cui si è detto. Provò, Renzi, a spintonarlo già all’inizio del 2020. Ma non trovò alleati per quella manovra e il Covid gli offrì l’occasione per battere in ritirata. Due volte. Ai primi dello scorso dicembre Renzi è partito per l’offensiva finale con più di un buon argomento — in particolare i ritardi sul piano italiano per il Next Generation Eu — ritenendo di avere l’avallo del Pd e del M5S. I due partiti, però, a metà strada lo hanno lasciato solo. Nessuno, eccezion fatta per i suoi sodali (e neanche tutti), dopo Natale lo ha più incoraggiato ad aprire la crisi. Neanche coloro che avevano condiviso i suoi rilievi al presidente del Consiglio. Non c’è stato neanche un osservatore esterno che abbia considerato appropriata la decisione di ritirare la delegazione ministeriale di Italia viva dal governo Conte. Ma lui non poteva evidentemente tornare sui suoi passi. E, con le dimissioni delle due ministre, ha aperto la crisi.
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