Le regole da rifare

Senza contare la frequenza oramai parossistica con cui deputati e senatori cambiano partito, gruppo parlamentare o schieramento (in questa legislatura sono già più di duecento; in tutta la Prima Repubblica furono solo 14), sicché alla fine nessuno risulta più responsabile di nulla. A cominciare del resto dal presidente del Consiglio, in virtù della sua alta carica autentico rappresentante simbolico di una degenerazione trasformistica che ha ormai pervaso tutto il sistema.

Spesso i lettori s’infastidiscono vedendo enumerate le cose che non vanno, ma non vedendo indicati anche i possibili rimedi. Ebbene, in questo caso il rimedio possibile mi sembra evidente: cambiare le regole. Regole che certamente non sono le prime e uniche responsabili della piega che hanno preso le cose ma che altrettanto certamente non solo non hanno impedito, ma anzi hanno in misura notevole permesso, che avvenisse la degenerazione che è sotto i nostri occhi.

Innanzi tutto, dunque — non seguo alcun ordine logico — le regole riguardanti l’elezione dei parlamentari. Chi rappresenta i cittadini deve essere conosciuto il più possibile da questi. I metodi possono essere molti ma gli elettori devono essere messi in grado di guardare in faccia chi eleggono, di sentirlo parlare e di parlare con lui; sicché se alla fine desiderano davvero mandare in Parlamento un tizio senz’arte né parte e che non sa mettere quattro parole in croce saranno sempre liberi di farlo, certo, ma almeno sapendo quello che fanno. Non si tratta di un dettaglio, è una modalità sostanziale della rappresentanza, senza la quale il principio stesso della medesima viene svuotato di gran parte del suo senso. Si deve mantenere ferma, insomma, l’idea che si eleggono delle persone, non solo delle liste o delle sigle (o perlomeno queste ma con pari rilievo delle altre), dal momento che poi alla Camera e al Senato siedono delle persone, non dei manichini.

Dopo di ciò come non pensare che vadano una buona volta cambiati anche molti aspetti del nostro sistema di governo? Che vada accresciuto ad esempio il potere e la responsabilità di chi il governo lo guida nonché la stabilità del governo stesso, magari introducendo una regola come quella della «sfiducia costruttiva»? Che si debba cercare anche in tal modo di evitare l’aleatorietà delle coalizioni e delle alleanze improvvisate, che vada anche riportata pienamente nel Parlamento l’emanazione delle regole che determinano la vita della collettività, temperando gli eventuali deliri d’onnipotenza dell’esecutivo e però al tempo stesso abolendo l’inutile lungaggine rappresentata dal nostro bicameralismo perfetto?

Ma il fallimento del referendum costituzionale del 2016 fa troppo paura. A destra come a sinistra nessuno se la sente di sollevare il problema delle regole che contribuiscono in misura decisiva alle numerose patologie delle nostre istituzioni e quindi al degrado del nostro Paese. Così come nessuna forza politica ha il coraggio di agitare davvero nell’opinione pubblica il tema cruciale della legge elettorale. Ognuno preferisce cercare di ottenere il testo che più gli fa comodo: e cioè che consenta di sfruttare al massimo il proprio potenziale capitale di voti danneggiando i rivali, e che insieme permetta ai capipartito di continuare a essere i padroni delle elezioni. Per l’Italia, dunque, tutto sembra destinato a continuare come prima. Sempre lo stesso, sempre un po’ peggio.

CORRIERE.IT

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