La somma delle solitudini di un’epoca travagliata
Esiste poi la solitudine sociale. La stiamo drammaticamente sperimentando in questa infinita pandemia che ci ruba tempo di vita e speranza del futuro. La solitudine degli adolescenti senza relazioni umane, dei 101 mila lavoratori che a dicembre hanno perso il lavoro, dei medici e degli insegnanti senza certezze, degli imprenditori e dei commercianti che chiudono le loro aziende sancendo, per chi le ha fatte vivere nel tempo, una sensazione di fallimento che però, e questo è ancora più frustrante, non dipende da propri errori ma da una contingenza nella quale ci si è sentiti ignorati.
La solitudine degli anziani isolati dalle loro famiglie e quella delle famiglie, quasi novantamila, che hanno saputo della morte di un padre o di una madre, di una moglie o di un marito da una telefonata o da un sms.
La progressiva disintermediazione sociale di questi anni, la teorizzazione della funzione catartica del leader di turno ha portato a un inaridimento delle forme di comunità sociale, sindacale, politica che costituivano una rete di difesa e di sicurezza per ciascuno. Non sempre di innovazione, ma questo anche perché è mancata una spinta dall’alto in questo senso.
Ma esiste anche una solitudine, in questo caso autonomamente cercata e praticata, della politica. Una solitudine rispetto al proprio Paese. La distanza siderale tra le modalità, i tempi, le parole della crisi dalla vita reale e dalla sofferenza dei cittadini rischiano di collocare ormai il gioco politico in uno spazio astratto e astruso. Con effetti pericolosi per la periclitante democrazia. Sembrano baruffe chiozzotte, litigi personali, saghe del trasformismo, ritorno a pratiche di indifferenza dei contenuti e prevalenza degli schieramenti, tutto ciò che ha pesato non poco sulla nostra vita democratica ed è stato alla base degli spaventosi dati del nostro debito pubblico.
L’Italia ha bisogno di stabilità, di riforme radicali, di relazione diretta tra elettori ed eletti, di governi che durino una legislatura e siano fondati sui programmi e non solo sull’ansia di tenere insieme una qualsiasi maggioranza, trasformando il governare in un fine e non in un mezzo.
Un Paese eternamente contro, il nostro. Un Paese di indefessi costruttori di «tavoli» ma capace di lentezza plantigradesca nel prendere decisioni, attuarle, farle rispettare. Mentre la solitudine delle persone nel gelo dei campi di Lipa o in un ristorante che sta chiudendo, che stiano facendo lezione a distanza o accettando la cassa integrazione, richiede che ci sia oggi non meno, ma più politica. Più proposta che polemica. Più decisione che annuncio. Le persone hanno bisogno della potenza della politica, mai come in questo momento. È la politica, l’antidoto principale alla solitudine dei diritti.
E la sua demonizzazione, la sua riduzione all’esclusivo refrain demagogico delle «poltrone», ha finito col ridurre il fascino e la capacità di far vivere la politica come partecipazione diffusa, come appartenenza critica a una comunità di valori e programmi. E ha allontanato il vertice dalla piramide dalla sua base, riducendo così gli spazi di discussione e decisione diffusa.
Per questo anche i leader, i partiti faranno bene a scuotersi e uscire dalla loro, autoimposta, solitudine. La democrazia è fatta per viverla insieme, in una comunità di destino. Valgono ancora le parole di Giorgio Caproni, scritte pensando all’Italia che rinasceva dopo il fascismo:
«Saremo nuovi.
Non saremo noi.
Saremo altri, e punto
per punto riedificheremo
il guasto che ora imputiamo a voi».
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