Crisi di governo: se salta anche Draghi salta il Paese
Un paio di settimane fa c’è stato un momento in cui ho pensato – me ne pento, me ne dolgo – che la strategia di Matteo Renzi fosse quella demente del kamikaze, che salta in aria con la sua vittima. Il rischio c’è ancora, lo vediamo dalle timide o sciagurate reazioni dei partiti all’ipotesi di Mario Draghi, ma se l’incastro riesce toccherà parlare di capolavoro. Renzi ha portato tutti, il Partito democratico, i cinque stelle, l’intera opposizione esattamente dove voleva, all’incarico all’ex presidente della Banca centrale europea, e se non ci fossero implicazioni personali, di potere e di vendetta, che sono irrimediabilmente nel sangue della vita, e se ci si fermasse un secondo a pensare, a guardare le due figurine – la figurina di Conte e la figurina di Draghi – si arrossirebbe a coltivare il più piccolo dubbio. C’è qualcuno immerso nella serenità di giudizio e in possesso delle facoltà mentali che affiderebbe il conto corrente all’avvocato di Volturara Appula invece che al banchiere romano? Ce n’è uno al mondo attrezzato meglio di Draghi a gestire i 209 miliardi del recovery fund di modo che non siano gettati in strizzatine d’occhio ma per rinsaldare le fondamenta economiche a beneficio di tutti?
Se però un senatore a testa di un partito dal due e mezzo per cento sta riuscendo a giocarsi il restante novantasette e mezzo, i giocati avrebbero da rifletterci più di un po’. Non so se sia un esercizio all’altezza delle ambizioni del Movimento cinque stelle, fin qui così giovani e già così disponibili, al governo con chiunque, a destra e a sinistra, fuori e dentro dall’Europa, ma al governo col più qualificato di tutti no. Almeno da quello che dicono stamattina. Se alcuni di loro rintracciano la testa laddove è stata collocata dalla natura, sulle spalle, il Movimento finirebbe con lo sbriciolarsi, e non sarebbe nemmeno un cattiva notizia davanti a un caravanserraglio cresciuto fra l’assemblea d’istituto e Topolinia, mentre Beppe Grillo tace giocondo, e assiste asserragliato nel blog al cataclisma della sua surreale creatura, che sta contribuendo con fervore al cataclisma del paese, e con la volenterosa e spensierata collaborazione di un elettore su tre, quanti nel 2018 si sono affidati a questi venditori ambulanti di cineserie pensando fossero il mago Magò. Non so come uno storico di domani saprà spiegare ai lettori la sbronza collettiva in cui siamo sprofondati.
Ma ancora più incomprensibile, ancora più disarmante è il collasso del Partito democratico, e lo dico con dolore poiché è l’ultimo grande partito pervaso da qualche idea del radicamento costituzionale e istituzionale della politica. Sono andati avanti fino a dodici ore fa a dire o Conte o voto, cioè con un piano A debolissimo e un piano B inesistente, oppure esistente ma devastante, come ha spiegato ieri sera Sergio Mattarella senza sbagliare una sola sillaba: lasciamo perdere la pandemia, tanto ormai le centinaia di morti quotidiane ci fanno l’effetto soporifero della statistica, ma andare a elezioni significherebbe esporsi almeno per i prossini tre mesi alle spietatezze del mercato (a cui ci siamo affidati noi, col debito, mica ci ha tirati dentro col trucco e con l’inganno uno alla Soros) e significherebbe non riuscire a presentare un progetto per il recovery almeno fino a giugno. Tanti auguri. Ecco, il Pd non aveva un piano alternativo e sebbene fosse lì da vedere, da toccare con mano: Mario Draghi. Ancora due giorni fa il segretario era impegnato a ingaggiare un duello con Concita De Gregorio, se lei fosse o non fosse radical chic, un po’ come lamentarsi della temperatura dello spumante mentre l’aereo precipita. Mi rendo conto che la similitudine è scialba, ma faccio fatica a trovare le parole a restituire lo sbalordimento. Spero escano presto dall’ipnosi, lì dentro c’è ancora gente di valore, stimabile, penso a Dario Franceschini, ad Andrea Orlando, a Peppe Provenzano, a Walter Verini, gente che deve riprendere in mano la baracca perché resti in piedi.
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