Von der Leyen: “Bene Draghi, ora sul Recovery plan l’Italia lavori senza sosta”
Sul Recovery bisogna correre, mentre sui vaccini si procede a rilento: cosa non sta funzionando nel piano Ue?
«Un
singolo Paese può muoversi come un motoscafo, mentre l’Ue è più una
petroliera. Ma questa è la nostra forza. Sono profondamente convinta che
l’approccio europeo sia quello giusto e comunque abbiamo lavorato molto
più rapidamente del solito. E non riesco a immaginare cosa sarebbe
successo se uno, due o tre Stati avessero avuto accesso al vaccino e gli
altri no. Quali conseguenze ci sarebbero state per il mercato unico o
per l’unità dell’Ue? Impensabile…».
L’Ema ci ha messo troppo tempo ad approvare i vaccini?
«Per
verificare l’efficacia e la sicurezza dei vaccini abbiamo deciso di non
prendere scorciatoie. Questo processo richiede 3-4 settimane e credo
che sia giusto seguirlo perché si tratta di nuovi vaccini. Bisogna
iniettare una sostanza biologica attiva in persone sane: è una
responsabilità enorme».
Il Regno Unito ha fatto una scelta diversa: è stata una mossa azzardata?
«Loro
hanno optato per la procedura d’emergenza, che dura 24 ore. Ma in quel
caso le responsabilità finiscono in capo al governo, non alle società.
Noi ci siamo mossi diversamente anche perché è difficile capire come si
possano analizzare i dati in 24 ore. E comunque abbiamo accelerato i
tempi grazie alla “rolling review”, che consente all’Ema di analizzare i
dati in tempo reale già durante i test clinici. Per questo siamo
riusciti a chiudere in 3-4 settimane un procedimento che di norma dura
7-9 mesi».
Però, al di là della partenza anticipata, i britannici stanno andando più veloci: perché?
«Perché hanno anche deciso di allungare i tempi tra il primo e il secondo richiamo (del vaccino Pfizer, ndr).
Noi non lo abbiamo fatto perché ci siamo attenuti alle raccomandazioni
dell’Ema: i dati sulla sicurezza e sull’efficacia sono affidabili solo
per l’intervallo di circa 4 settimane tra un’iniezione e l’altra.
Ovviamente, così facendo, la quantità di gente che ottiene il primo
vaccino è inferiore».
E invece come giustifica la differenza con Israele?
«Si
tratta di un Paese altamente digitalizzato, il che è positivo. Ma loro
hanno accettato di cedere alle società i dati sanitari dei cittadini.
Noi non lo faremmo. Abbiamo un approccio diverso per quanto riguarda la
privacy».
Quindi lei è soddisfatta di come stanno andando le cose?
«Siamo
stati incaricati di gestire il piano a giugno e ad agosto abbiamo
firmato il primo contratto con AstraZeneca. Cento società ci hanno
chiesto di essere prese in considerazione, noi ne abbiamo scelte sei. È
stata una scommessa, ma una scommessa giusta. Perché tre di questi
vaccini sono già stati autorizzati. Poi arriveranno anche
Johnson&Johnson, CureVac e più tardi Sanofi. Il successo del nostro
portfolio parla da sé».
Però l’Ungheria ha deciso di affidarsi al vaccino russo e a quello cinese: teme che altri possano seguire questa strada?
«Ripeto:
sul mercato europeo abbiamo vaccini efficaci e sicuri. Ovviamente tutte
le case farmaceutiche hanno il diritto di chiedere l’autorizzazione
all’Ema, che per noi è una precondizione. Per quanto riguarda la
decisione ungherese, gli Stati sono liberi di dare un’autorizzazione
d’emergenza. Anche se in questo caso la responsabilità passa dalla
società al governo».
Resta il fatto che alcuni leader europei hanno criticato apertamente la gestione della Commissione: come risponde alle accuse?
«Innanzitutto vorrei sottolineare che la stragrande maggioranza dei leader ha espresso pubblicamente il suo sostegno».
Stragrande maggioranza non vuol dire unanimità…
«Da
giugno abbiamo istituito lo “steering board” dei vaccini, un comitato
direttivo in cui sono rappresentati tutti i 27 Stati. Nessuna decisione è
presa senza il consenso dei 27 governi. Stiamo parlando di un organismo
che si riunisce regolarmente, 5-7 volte al mese, per discutere di ogni
piccolo dettaglio dei contratti che sono in fase di trattativa. Un
piccolo gruppo di Stati era anche nel team negoziale con le case
farmaceutiche, hanno seguito ogni passo».
Non ha nulla da rimproverarsi? Nessuna autocritica?
«L’anno
scorso ci siamo focalizzati sulla necessità di sviluppare al più presto
i vaccini, un processo che di solito dura 5-10 anni. Forse – in
parallelo – avremmo dovuto concentraci di più sui problemi legati alla
loro produzione di massa. Li abbiamo sottovalutati. Anche le industrie
hanno visto arrivare i vaccini prima del previsto, il che è certamente
positivo, ma poi bisogna aumentare la produzione e avviare per tempo le
catene di approvvigionamento. Basti pensare che alcuni vaccini
richiedono 400 componenti. Forse ci si poteva muovere prima.
Per questo ora stiamo lavorando con le industrie per fronteggiare le possibili questioni legate alle varianti del virus. Dobbiamo guardare ad altri siti e investire insieme in nuove capacità produttive, sapendo che per essere operativi ci vogliono mesi. Meglio prepararsi ora, non si sa mai cosa può succedere tra dodici mesi. Anche perché ci possono essere alti e bassi: Pfizer/BioNTech ha dovuto rallentare le consegne per espandere la produzione. Episodi simili potranno ripetersi».
Altri errori?
«Col
senno di poi avremmo anche dovuto spiegare meglio ai cittadini che il
processo di distribuzione sarebbe stato lento perché si trattava di una
procedura completamente nuova».
I cittadini chiedono anche maggiore trasparenza sui contratti: perché non sono pubblici?
«Perché si tratta di contratti tra noi e delle società private: serve il loro consenso. Ora stiamo cercando di convincerle che la trasparenza è anche nel loro interesse».
LA STAMPA
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