La nostra classe dirigente e il sapere che serve in politica
di Ernesto Galli della Loggia
Quanto sta accadendo in questi giorni mostra ancora una volta la pochezza, la mancanza di coraggio e di visione, l’indecisione, in una parola l’inconsistenza politica, dell’universo partitico italiano. È il risultato di un fenomeno oramai trentennale: della catastrofe culturale che ha colpito la classe politica del nostro Paese determinandone un pauroso abbassamento qualitativo. La colpa sarà pure del modo d’essere del sistema politico o dei partiti, della legge elettorale o magari della crisi della democrazia rappresentativa. Ma qui c’è qualcosa di molto più basilare e personale. C’è l’esperienza e la formazione culturale dei singoli, c’è la biografia di coloro che nell’ultimo trentennio hanno ricoperto l’incarico di parlamentari o ministri della Repubblica. È in questa direzione che va indirizzato lo sguardo cominciando da un confronto con il passato.
La prima Repubblica — i cui traguardi appaiono sempre più straordinari con il passare del tempo — fu dominata sul versante governativo democristiano da quattro nomi: De Gasperi, Andreotti, Moro e Fanfani. I primi due, dopo aver frequentato con merito il liceo classico avevano avuto una precocissima e intensissima (anche se per mille ragioni diversissima) esperienza organizzativa e politica; Moro e Fanfani, invece, erano entrambi professori universitari provenienti anch’essi dall’associazionismo cattolico. Sul versante degli altri partiti la quasi totalità dei loro leader più significativi proveniva dall’attività più o meno clandestina contro il fascismo (con l’eccezione di Craxi e Berlinguer, troppo giovani). Cioè da una scuola di carattere e di disciplina ispirata ovviamente al più totale disinteresse, dove quel che contava oltre il coraggio erano le idee: in altre parole i libri, i giornali, il saper leggere e scrivere. Con le ovvie diversità del caso lo stesso più o meno valeva pure per gli esponenti del neofascismo.
La cesura è intervenuta alla metà degli anni Novanta. Segnata per quel che riguarda l’argomento di cui ci stiamo occupando da tre fatti: a) il progressivo ringiovanimento della classe politica (in questa legislatura l’età media — media! — dei deputati è di poco meno di 44 anni e oltre un terzo di essi non ha avuto alcuna esperienza politica precedente; b) la presenza sempre più massiccia in politica di uomini del fare provenienti direttamente dal mondo tecnico-imprenditoriale (l’avvento di Forza Italia è stato da questo punto di vista decisivo); e infine c) l’inizio del disfacimento dell’intero sistema dell’istruzione (alleggerimento/banalizzazione di tutti programmi, riduzione delle ore di storia e geografia, rilassamento disciplinare e crescente irrilevanza dovunque dell’accertamento del merito, introduzione della laurea 3+2 nell’università, venir meno di qualsiasi controllo dell’istruzione sulla soggettività giovanile a causa soprattutto della digitalizzazione dilagante).
In pratica dunque — grazie anche all’abbandono della vita pubblica da parte di ogni tipo di élite — una percentuale sempre più ampia della classe politica di vertice del Paese si è trovata composta di individui giovani o relativamente giovani con alle spalle studi mediocri e perlopiù privi di una buona cultura di base (del resto basta ascoltarli quando parlano), e che non sono mai stati chiamati a dare una qualche prova significativa delle proprie capacità e del proprio carattere. Si aggiunga un ultimo elemento ancora: e cioè che grazie a leggi elettorali che virtualmente sottraggono agli elettori qualsiasi concreta possibilità di scegliere i propri eletti, quasi sempre la loro presenza in Parlamento è stata dovuta a una cooptazione basata esclusivamente sul criterio della fedeltà e dell’obbedienza.
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