Il nuovo governo: una sfida per tutti

di Federico Fubini

Dato il carattere di noi italiani, forse presto molti confesseranno una passione insospettabile per la campagna umbra — dove Mario Draghi ha un casale — così come alla fine del 2011 facevano furore i loden alla Mario Monti. Ma le mode passano. Le agende di governo restano. Anche dopo le consultazioni, i giuramenti e gli applausi di rito. E se ci si chiede cosa nei decenni abbia dato mordente alle figure istituzionali chiamate a Palazzo Chigi — prima di Monti stesso, Carlo Azeglio Ciampi e Lamberto Dini — la risposta è sempre la stessa: la paura. Lo spettro dell’insolvenza dello Stato misurata dallo spread, la differenza dei rendimenti, fra i titoli tedeschi e i nostri.

Fu la paura dopo il crollo della lira del ’92 a indurre i partiti al crepuscolo della Prima repubblica a mettersi nelle mani di Ciampi. Fu la paura e non certo la convinzione a indurli quasi tutti ad appoggiare, o almeno non impedire, le riforme delle pensioni di Dini e di Monti. Da questo punto di vista Draghi si avvia ad essere un premier istituzionale decisamente diverso, per un duplice motivo. In primo luogo è stato chiamato dal Quirinale quando lo spread era già basso (da allora è sceso ulteriormente) e gran parte dei nostri politici il rischio di una nuova crisi finanziaria per il momento non sembra proprio vederlo.

Ma soprattutto a questo premier nessuno oggi sta chiedendo austerità. Non la chiedono i mercati né Bruxelles, anche perché le regole europee di finanza pubblica molto probabilmente resteranno sospese anche nel 2022 e ciò nel prossimo autunno darà spazio al governo per una legge di bilancio un po’ meno complicata da scrivere. Draghi oggi ha non solo licenza ma il dovere di spendere, perché la sua missione più urgente sarà dare vita al Recovery plan da 209 miliardi.

Sembra un mondo rovesciato, rispetto agli altri governi tecnici della nostra storia. Ma è così? Non proprio. E i partiti che in qualche modo sosterranno Draghi potrebbero tenere d’occhio anche lo spread reale, non solo quello dei titoli di Stato. Perché quello è alto. Fra i principali 45 Paesi del mondo dei quali l’Ocse di Parigi prende la temperatura ogni settimana, l’Italia in questo momento mostra la caduta dell’attività economica più profonda. L’anno scorso le moratorie sul credito o i prestiti garantiti hanno artificialmente tenuto in vita oltre 15 mila imprese che erano destinate a fallire, secondo stime della Banca d’Italia (l’altro lato della medaglia è la dinamica debole nei settori che altrove in Europa vanno bene, dal digitale alla farmaceutica: nessuno esce e nessuno entra nel mercato, tutto resta immobile).

Quanto al blocco in scadenza a fine marzo, sempre la Banca d’Italia stima che abbia determinato un accumulo di circa 450 mila licenziamenti arretrati che le imprese aspettano di fare. A metà di quest’anno potrebbero esserci fra 800 mila e un milione di posti di lavoro in meno rispetto all’inizio della pandemia, anche se dall’estate la situazione probabilmente è destinata a migliorare.

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