Quel sogno di un Paese “normale”

All’ex governatore della Bce dice sì la Lega di Salvini, e questa è una Pasqua di maggio ancora più strabiliante. La punta di lancia tricolore dell’Internazionale Sovranista ispirata da Steve Bannon, che nella campagna elettorale del 2018 voleva il referendum per uscire dall’euro e dalla Ue, oggi grida “vengo anch’io” all’esecutivo guidato dall’uomo che l’Europa l’ha salvata con tre parole, “whatever it takes”, e l’ha difesa con un bazooka monetario, il “Quantitative easing”. Oggi, spenti i lumi distopici di Visegraad e smaltiti i fumi alcolici del Papeete, il Capitano dialoga con il non più esecrato banchiere centrale e annuncia “siamo in sintonia, siamo a disposizione”. Non offre solo voti, chiede ministeri, vuole stare dentro il nascente governo più europeista della Storia repubblicana. L’Intendenza padana segue, tra la premiata ditta Borghi&Bagnai che considera amico il nemico di ieri e Giorgetti che in nome e per conto del Grande Nord vede in Draghi il Ronaldo in grisaglia con cui non si può rimanere in panchina. Arrivato Biden, tramontato il disegno del nazionalismo trumpista, filo-russo e anti-occidentale, persino “l’altro Matteo” capisce che questo governo è l’ultimo treno che può riportare il Carroccio dentro i confini di un’Europa dalla quale si era masochisticamente autoescluso. Anche questa, un’altra mutazione genetica che lascia basiti.

A offuscare l’orizzonte rimangono pochi residui “no, tu no”: i 5S verso Berlusconi, Pd-Leu verso Salvini, Giuseppe Conte verso se stesso. Un comprensibile travaglio politico (e nel primo caso anche giornalistico), che tuttavia non sembra così acuto da fermare la corsa di Draghi. Zingaretti bacerà il rospo leghista. La sua leadership non scalda i cuori come Berlinguer e non produce egemonia come Gramsci, ma un merito ce l’ha: in un anno e mezzo ha riportato il partito democratico al centro del villaggio e il Movimento Cinque Stelle al centro dell’Unione europea. Per il resto sarà il premier in pectore a trovare la sintesi tra politici e tecnici. Una diade per altro insensata: a prescindere dagli incarichi ministeriali, ogni atto di governo è comunque politico. È stato così per Ciampi nel ’93, per Dini nel ’95, per Monti nel 2011. Sarà così anche per Draghi, qualunque sia la sua piattaforma programmatica.

La verità è che dire di no a Draghi è maledettamente difficile. E qui c’è una lezione da imparare. Draghi è la prova vivente che uno non vale uno. Le persone contano. La competenza fa tutta la differenza. Non si tratta di farne un mito, un eroe, un santino. Potrà sbagliare, e forse anche fallire. Ma quello che ha fatto in 50 anni al Tesoro, alla Banca d’Italia, alla Bce, oggi fa di lui la migliore risorsa che il Paese può esprimere. Come dice il vecchio Rino Formica, “è il garante della nostra credibilità”, nazionale e internazionale, rassicura e offre garanzie sull’uso dei fondi, e “si vede che ha sempre maneggiato l’esplosivo che regge il mondo, la finanza e la moneta”. E il solo fatto di aver ricevuto l’incarico, oltre ad aver abbattuto lo spread, ha già sconvolto il disastrato palazzo italiano. E qui c’è un’altra lezione da cogliere. Il ciclo populista e grillo-leghista, che sembrava destinato a durare un ventennio, si sta invece esaurendo. La ricomposizione del centrosinistra riformista, intorno all’asse Pd-M5S, sembra probabile. La scomposizione della destra radicale, confinata nel recinto di una Meloni coerente ma respingente come il vecchio Msi, sembra possibile. È ancora presto per dirlo. Ma forse dalle ceneri di questa politica potrebbe persino rinascere quel “Paese normale” che inseguiamo ormai dalla notte dei tempi.

LA STAMPA

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