Il capitale umano da tutelare per Draghi: giovani, donne, formazione
Bisognerà avere cura di non far precipitare le imprese in crisi, ma con un futuro, dalla mancanza di liquidità all’insolvenza irreversibile. Ma il denaro gettato in aziende decotte, specie se pubblico e a debito, è puro spreco. I lavoratori e le lavoratici in difficoltà vanno tutelati puntando sulla loro formazione, rispettandone così la dignità. «Il sistema di protezione sociale — scriveva Draghi nelle Considerazioni finali del 2011, ultimo anno da governatore della Banca d’Italia — deve essere posto in grado di offrire, a chi perde definitivamente il lavoro e ne cerca attivamente un altro, un sostegno sufficiente; occorre che la sorte di chi lavora in aziende che non hanno più prospettive di mercato sia resa meno drammatica, anche per non ostacolare il fisiologico ricambio delle imprese».
Sono tante le questioni che possono dividere, specie sul versante fiscale (laflat tax, per esempio), una coalizione politicamente troppo eterogenea. Ma ce ne sono alcune — a parte ovviamente la primaria necessità di sconfiggere il virus e avviare i programmi del Next generation Eu — sulle quali non vi può essere dissenso. Le riassumiamo nella formula «il capitale umano degli italiani». E ci piacerebbe che fosse una sorta di preambolo programmatico del nuovo governo. Non solo per la doverosa attenzione ai giovani, alle donne, al loro lavoro e alla loro formazione, ma in generale per l’emergenza educativa. A tutte le età.
Scriveva ancora Draghi nelle Considerazioni finali lette il 31 maggio del 2011: «Occorre proseguire nella riforma del nostro sistema di istruzione, già in parte avviata, con l’obiettivo di innalzare i livelli di apprendimento, che sono tra i più bassi nel mondo occidentale anche a parità di spesa per studente. Troppo ampi restano i divari interni al Paese: tra Sud e Nord, tra scuole della stessa area, anche nella scuola dell’obbligo. Nell’università è desiderabile una maggiore concorrenza fra atenei, che porti a poli di eccellenza in grado di competere nel mondo; è ancora basso nel confronto internazionale il numero complessivo di laureati». Dieci anni dopo, secondo i dati Istat, siamo agli ultimi posti in Europa per livello di istruzione. La quota di popolazione con titolo di studio terziario è del 19,6 per cento, contro il 33,2 per cento della media europea. «Oggi — aggiungeva Draghi — il 60 per cento dei laureati è formato da giovani donne: conseguono il titolo in minor tempo dei loro colleghi maschi, con risultati in media migliori, sempre meno nelle tradizionali discipline umanistiche. Eppure in Italia l’occupazione femminile è ferma al 46 per cento della popolazione in età da lavoro, venti punti meno di quella maschile, è più bassa che in quasi tutti i Paesi europei soprattutto nelle posizioni più elevate e per le donne con figli». Dieci anni dopo, la situazione non è cambiata. Anzi. Il tasso di occupazione femminile è al 48,5 per cento. Il distacco con la media europea è aumentato. Da 11,7 punti a 13,9. E la differenza nella quota di laureate è cresciuta da 9 a 11,4 punti.
Le donne pagano il prezzo più elevato alla crisi. Oggi quelle parole possono essere tradotte in atti concreti. «Quale Paese lasceremo ai nostri figli?» si chiedeva ancora Draghi facendo un bilancio dei suoi cinque anni in Banca d’Italia. «Tante volte abbiamo indicato obiettivi, linee di azione, aree di intervento. Quando si guarda a quanto poco di tutto ciò si sia tradotto in realtà, viene in mente l’inutilità delle prediche di un mio ben più illustre predecessore». Si riferiva ovviamente a Luigi Einaudi, che non guidò mai un governo.
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