Dal mare di Ciampi alle notti del Papeete: se il buen retiro svela l’anima dei politici
flavia perina
L’idea che uno come Mario Draghi, «l’Americano», «Il Professore», «SuperMario», uno di casa a New York, Londra, Francoforte, sempre al top degli incarichi e delle location, abbia la sua Mar-a-Lago in un paese di settemila abitanti – Città della Pieve – dove gira in Panda è piuttosto strana. Ma solo perché la Seconda Repubblica ci ha abituato a una certa vena esibizionista del potere, che senza arrivare agli estremi del Papeete è passata per la villa col vulcano finto di Silvio Berlusconi in Costa Smeralda, i tuffi dallo yacht di Roberto Formigoni, il timoniere Massimo D’Alema con il suo Ikarus di 18 metri, i capodanni esotici alle Maldive di Pierferdinando Casini, Renato Schifani, Francesco Rutelli, e molte altre cose al confine tra politica e cinepanettone.
L’idea del buen ritiro, del posto lontano e «normale» dove rilassarsi, appartiene ad altre generazioni e a biografie dove l’impegno full-time (impegno vero, inchiodati ai tavoli e ai dossier) era un dovere e al tempo stesso una maledizione che richiedeva, quando possibile, «stacchi» assoluti. Era logico cercare luoghi dove risultasse improbabile incontrare il compagno di partito, il collega, l’avversario, il fan esuberante e voglioso di conversazione. Così, Aldo Moro se ne andava a Terracina, vestito pure in spiaggia (c’è una memorabile foto mentre gioca con la figlia in giacca, cravatta e scarpe coi lacci). Giulio Andreotti si arrampicava ogni estate fino a Merano, in tempi pre-Variante di valico, quando arrivarci era davvero un tormento. Sandro Pertini idem, Val Gardena. Giorgio Almirante a Levico. Enrico Berlinguer a Stintino, nella casa d’affitto di un pescatore. Tutti posti dove il rischio di parlare di lavoro era minimo, quello di incontrare un giornalista quasi inesistente.
Negli ultimi 25 anni, questa abitudine è stata conservata solo dai due «marziani» che hanno preceduto Draghi in operazioni di salvataggio nazionale, Carlo Azeglio Ciampi e Mario Monti, entrambi con percorsi professionali molto simili. Per Ciampi il buen ritiro era una villa assai poco sfarzosa a Santa Severa, dove remava in pattino e giocava a tresette con gli amici del posto. Per Monti, Porto Recanati o Lesa, sul Lago Maggiore, anche se le sue vacanze più discusse furono quelle di montagna a Silvaplana (Svizzera) con figli e nipotini: gli avversari lo raccontarono ospite di un resort di lusso, stava in un appartamento condominiale di quattro camere.
Il paradosso è che i nostri leader o premier apparentemente «provinciali», quelli che in vacanza scomparivano in paesi piccolissimi, dedicandosi agli eterni passatempi paesani delle carte o del far niente seduti nel patio di casa, erano in realtà i più internazionali: quelli che avevano viaggiato, visto il mondo, occupato ogni immaginabile Senior Suite nei posti più importanti dell’Occidente e dell’Oriente. Ovvio che nel relax volessero altro. Ovvio che i fine settimana in pantofole avessero per loro un fascino assoluto.
Al contrario, i desideri e le ambizioni degli altri – i festaioli delle estati sotto i riflettori, spesso circondati da piccole folle di fedelissimi – rivelano almeno tre cose. La prima è la loro insicurezza, l’idea che sparire per un po’ sia deleterio (hai visto mai che si dimenticano di me?). La seconda è la gran confusione tra pubblico e privato, con la convinzione che persino la polenta cucinata per cena o la biciclettata debbano diventare messaggio politico. Infine, c’è il bug esperienziale di giovinezze quasi interamente dedicate a quel mestiere triste che è diventato la politica: le troppe serate in sede per le assemblee di circolo, o in parrocchia, o a cercar voti alla bocciofila; le domeniche al seguito del capocorrente; i «non posso» pronunciati ogni weekend mentre i coetanei se ne andavano al cinema, in discoteca, appresso alla più bella della comitiva.
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