Perché difendo Matteo Renzi

Il livore antirenziano segnala come ripeto da tempo un problema storico del centro-sinistra assai più serio di quello della diagnosi psicopatologica di Renzi. In gioco è l’identità stessa del Pd, di ereditare autenticamente la propria storia, della sua capacità o incapacità di interpretare il suo tempo. Nonostante Renzi militasse nel loro stesso partito i vecchi comunisti lo hanno vissuto sempre come un corpo estraneo, facendogli la guerra in modo militante e organizzato. Questo non ha solo contribuito alla caduta del sogno riformista che Renzi ha rappresentato, seppur per un breve tempo, per l’Italia, ma – ben al di là di Renzi – ha mostrato tutti i limiti interni relativi all’identità politica del Pd. Oggi non siamo in un tempo molto diverso da quello. Almeno dal punto di vista delle dinamiche psicologiche del centro-sinistra. Ieri D’Alema e soci brindavano nelle sedi del Pd alla sconfitta del loro stesso partito al referendum, felici di avere frenato l’ambizione smodata del figlio ribelle e di aver salvato la Costituzione, ieri esultavano di fronte al suo ennesimo passo falso, quello di avere provocato una crisi al buio non rendendosi conto però che nel buio eravamo già tutti. La demonizzazione del figlio bastardo di Rignano è oggi il paravento dietro il quale nascondere la propria dipendenza politica dal M5S. Sarebbe invece dovuto essere proprio il Pd a sollevare la crisi assumendosi la responsabilità di dare al Paese una nuova speranza. Non è questo storicamente il suo compito? In molti dei suoi militanti condividevano le tesi critiche di Renzi senza avere il coraggio politico di assumerle pubblicamente. Nel nome dell’emergenza, ovviamente. Ma non è l’emergenza a imporre sempre cambiamenti drastici? A insegnarci che il coraggio delle proprie idee merita la luce? A imporre di voltare pagina?

LA STAMPA

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