Draghi, ora è il popolo a volere un’élite
Sappiamo che Mario Draghi proviene da una tradizione di servizio all’interesse nazionale tra le più impeccabili e severe, quella della Banca d’Italia di Stringher, di Einaudi, di Ciampi. Una fucina di classe dirigente nel senso migliore, le cui qualità Draghi ha esportato in Europa e nel mondo, ricavandone ammirazione e rispetto. Però, nonostante questi quarti di nobiltà, neanche lui potrà sfuggire ai rischi che la situazione comporta.
Il primo è il seguente: c’è ancora oggi, nel declino italiano, abbastanza élite di qualità per guidare uno sforzo di rinascita nazionale? Nel governo Ciampi del 1993, tanto per dire, c’erano un giurista come Gino Giugni, un intellettuale come Alberto Ronchey, un politico come Beniamino Andreatta.
Il secondo interrogativo è più indiscreto: sarà questa nuova classe dirigente, chiamata alla prova della pandemia dal fallimento della lotta dei galli politici, capace di «sporcarsi» le mani? Di rischiare cioè anche la critica e il dissenso che inevitabilmente arriveranno di fronte alle scelte difficili? Perché tra le tante qualità dell’élite non sono il distacco aristocratico e la raffinatezza dei modi quelle più richieste dai tempi che viviamo. Ogni governo è politico. E la politica democratica è sempre lotta e combattimento, anche senza ricorrere al brocardo di Rino Formica su «sangue e merda». Lo è perfino quando ci si trova alle spalle il grande consenso popolare che oggi accoglie la speranza Draghi.
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