Distanze necessarie/ Il vero volto di un premier diverso dagli altri

ALESSANDRO CAMPI

Sulle capacità personali di Mario Draghi nessuno ha dubbi. Il suo curriculum è stato setacciato, alla ricerca di falle o punti deboli (che so, un master mai frequentato, una laurea honoris causa concessa dall’Università della Kamchatka, una pubblicazione a sedici mani sul “Liechtenstein Journal of Economics”). Niente da fare, tutto in ordine. Ha avuto una carriera impeccabile (e invidiabile), gode di grande credito internazionale, ha accumulato cariche una più prestigiosa dell’altra, ha competenze economiche indiscusse e sembrerebbe possedere anche inaspettate doti politiche. 

Eppure anche uno così potrebbe fallire. Non solo perché i problemi che già oggi ha dinnanzi sono oggettivamente enormi, ma per i pericoli e gli inciampi che si troverà sulla strada e che con abilità dovrà schivare. 

No, non parliamo dei partiti che appoggeranno la sua (ampia) maggioranza. Quelli faranno semmai qualche atto d’ostruzionismo e proveranno ogni tanto a mettersi di traverso, come stanno facendo in queste ore Pd e M5S, in pressing felpato su Draghi affinché rifiuti il sostegno della Lega. Ma se da un lato è chiarissimo il mandato del Capo dello Stato (tutti dentro salvo chi si chiama volontariamente fuori, senza veti di nessuno su nessuno), dall’altro è ancora più chiaro che il governo Draghi nasce per dare soluzione a un fallimento politico-istituzionale prodotto proprio dai partiti. 

Ai quali dunque, sinché l’emergenza durerà, non resta che fare buon viso a cattivo gioco. Per il bene del Paese, ma in fondo anche per il loro. 

Sono allora altri i pericoli che Draghi dovrà schivare. Il primo, già largamente materializzatosi, sono gli eccessi di adulazione e la corsa a santificarlo. Atteggiamenti che la dicono lunga sia sullo stato di prostrazione degli italiani, alla ricerca di un santo (anche politico) cui votarsi, dall’altro sulla loro atavica tendenza ad adagiarsi sul potente di turno.

L’incensamento e la cortigianeria non sono un male in sé, anche se alla lunga possono risultare destabilizzanti per chi ne è oggetto. Sarebbe invece un problema se, in questa corsa a chi encomia di più Draghi, si smarrissero il senso critico e l’indipendenza di giudizio. Per lavorare bene Draghi non avrà bisogno di persone disposte a ricordargli, in privato e in pubblico, quanto sia bravo e intelligente, ma in grado di disapprovarne eventualmente le proposte e le scelte. Va da sé in modo argomentato e razionale, non per pregiudizio o partito preso. L’unanimismo acritico in democrazia è pericoloso – su questo ha ragione Giorgia Meloni, anche se le motivazioni politiche del suo “No” a Draghi non convincono più di tanto.

Parente stretta della cortigianeria è poi la retorica pubblica su Draghi estrema e unica riserva della Repubblica, salvatore in extremis della patria, insomma il “Mr. Wolf” tarantiniano chiamato a risolvere tutti i nostri problemi. Il pericolo in questo caso è duplice: mettere sulle spalle di una sola persona un carico ingestibile di aspettative, dimenticando che uno Stato è un sistema complesso che funziona solo se tutte le sue articolazioni funzionano; precostituirsi un alibi e scaricarsi da ogni responsabilità per prendersela con quell’unico e solo uomo allorché le cose dovessero prendere una piega sbagliata o inattesa. 

Un terzo pericolo che presto si addenserà, più tecnico, riguarda la porosità del sistema burocratico-amministrativo italiano, la sua tendenza autoconservativa che va oltre le logiche di schieramento politico e le simpatie personali di questo o quel burocrate. E’ un riflesso protettivo di casta, una difesa ad oltranza di privilegi che spesso non sono nemmeno economici, ma di status e di ruolo. 

Le riforme in Italia, quelle poche che si sono fatte, spesso sono fallite o hanno funzionato male proprio perché chi doveva implementarle e renderle operative ha agito controvoglia e in modo pedissequo, seguendo un’antica regola: se vuoi produrre blocchi e rallentamenti applica i regolamenti e le procedure alla lettera.
A Draghi si sta chiedendo (gli italiani prima che l’Europa) di fare riforme importanti, anche se in due anni più di tante non potrà farne. Il problema è renderle concrete, affinché producano effetti reali, soprattutto quelli desiderati. Ma c’è appunto una macchina pubblica da rimotivare e (in non pochi casi) mettere in riga, alla quale ricordare che le sue azioni sono funzionali alle scelte adottate sul piano politico e che le sue attività sono sempre al servizio della collettività.

Fare le riforme (quelle vere) significa toccare equilibri e interessi consolidati, rendite di posizione piccole e grandi, modificare procedure e linee operative. Bisogna dunque mettere in conto resistenze e sabotaggi, atteggiamenti passivi e formalismi esasperati, da superare e stroncare subito. 
Ma il pericolo finale e più grande, il più legato ai tempi che stiamo vivendo, è quello che verrà a Draghi dalle dinamiche della politica-spettacolo e dalla bulimia che governa il sistema dell’informazione. Anche su questo versante i primi segnali negativi si sono già visti. Si è partiti con l’agiografia relativa all’uomo pubblico (il banchiere, il professore) per poi buttarsi subito sull’aneddotica riguardante l’uomo privato (il padre, il marito, il compagno di scuola). Ma molto peggio potrebbe ancora venire.

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