Un’identità in positivo (verso le prossime elezioni)
C’è di più. È la prima volta nella storia della seconda (e terza) Repubblica che si crea un’area governativa neutra nella quale destra e sinistra sono rappresentate in proporzioni adeguatamente calibrate. E il governo ha un leader, Draghi, che ad ogni evidenza non subirà, al termine del percorso, la tentazione di entrare nell’agone politico. Nelle due prove che hanno qualche analogia con l’attuale — quella di Carlo Azeglio Ciampi (1993) e quella di Mario Monti (2011) — non si diedero condizioni di pari bilanciamento. Un equilibrio delicatissimo che, all’epoca di Ciampi, fu turbato nel giorno del debutto dalle improvvide dimissioni di ben quattro ministri decisa da Achille Occhetto (Pds). Da quel momento si capì che il governo avrebbe avuto una vita di pochi mesi, giusto il tempo per mettere a punto la legge elettorale. Mesi durante i quali montò, fuori dal Parlamento, l’onda berlusconiana che nelle elezioni del 1994 travolse l’alleanza progressista guidata dal Pds.
Ai tempi di Monti, l’allora presidente del Consiglio, dopo un avvio che parve incoraggiante, si spostò impercettibilmente sul coté antiberlusconiano e quando fu evidente che il capo del governo era intenzionato a dar vita a una propria coalizione centrista, la residua armonia andò in frantumi. Probabilmente questi spostamenti di Monti furono dovuti alla necessità di garantirsi un sostegno dopo esser stato costretto a prendere decisioni assai impopolari. Ma il risultato fu che anche allora montò fuori dal Parlamento un’onda. Stavolta quella grillina, che alle successive elezioni (2013) travolse gli assetti bipolari apparentemente consolidati.
Adesso le cose potrebbero andare diversamente. L’emergenza pandemica costringe i partiti — compreso quello di Giorgia Meloni autocollocatosi all’opposizione — a comportamenti più responsabili. Nello stesso tempo tra centrodestra e centrosinistra la partita è aperta: entrambi hanno opportunità di vittoria. Potrebbero tutti e due gli schieramenti accorgersi della convenienza di quel che giorni fa sul manifesto proponeva Stefano Fassina, un parlamentare di estrema sinistra pur assai critico nei confronti degli assetti attuali. Auspicava, Fassina, un sistema democratico che non abbia a fondamento «la totale delegittimazione dell’avversario come tratto di identità dei principali partiti e movimenti politici italiani». Delegittimazione che, a suo dire, ha avuto come diretta conseguenza il reiterato ricorso a governi tecnico-politici presentati come soluzioni di tregua istituzionale. Un’osservazione sensata. Forse ora l’appartenenza alla stessa area di governo potrebbe suggerire l’abbandono dell’arma della delegittimazione dell’avversario. E spingere — anche chi (come Fassina) non si riconosce nell’attuale maggioranza — a cercare un’identità in positivo che non si riduca all’essere «contro» l’avversario del momento. Il che avrebbe una triplice conseguenza. La tregua nella maggioranza metterebbe il Paese in condizioni migliori per debellare il Covid e costruire una «retrovia» attrezzata al dopo. Le forze politiche avrebbero il tempo e l’opportunità per prepararsi alle future elezioni. E chi vincerà sarà doppiamente legittimato (dal voto e dagli avversari in compagnia dei quali ha fino a quel momento governato) a dar vita a una coalizione interamente politica. Senza essere obbligato ad andar poi a cercare voti qua e là in Parlamento. Talché questa del febbraio 2021 potrebbe passare alla storia come l’ultima volta in cui un capo dello Stato è stato costretto a chiamare alla guida del Paese una personalità venuta «da fuori».
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