Piaga burocrazia/ La transizione più urgente è quella dal passato
Sono, dunque, due i motivi che portano a ritenere urgente una ristrutturazione del modo stesso di lavorare delle istituzioni: cognitivo, perché continuando ad affidarci solo sulla somma delle competenze degli esperti (come abbiamo fatto con la pandemia) continua a sfuggirci la natura dei problemi e, dunque, le possibili soluzioni; amministrativa, perché se per fornire un qualsiasi servizio abbiamo bisogno di cento adempimenti, il risultato finale si allineerà ai tempi del soggetto che evade il proprio con minore efficienza.
Il senso del nostro tempo è che Internet sta connettendo linguaggi e specializzazioni tra di loro diverse e sta rendendo le questioni irrisolvibili se diverse competenze non trovano un modo di lavorare insieme. La stessa incapacità di aprire le scuole è stato il risultato del mancato coordinamento di diverse componenti di una società intera che dovrebbe stringersi attorno alla sua parte più importante: dai trasporti agli orari degli uffici, dalla gestione di spazi non utilizzati al tempo di genitori che devono far parte del processo formativo.
La transizione digitale ed ecologica sono esempi evidenti di politiche di trasformazione di un intero sistema economico e politico che non possono neppure cominciare se rischiano di essere fermate perché abbiamo perso un’autorizzazione lungo la strada. Vanno concepite differenziandole per singolo territorio – le priorità verdi di Roma non sono quelle di Milano – e integrando le due trasformazioni tra di loro: dobbiamo usare una quota assai maggiore del potenziale che le tecnologie forniscono, ma per farlo dobbiamo garantire che esse siano funzionali al raggiungimento di un obiettivo che riguarda tutti (visto che come notò il maestro di Draghi, Robert Solow, non necessariamente i computer aumentano la produttività di un sistema).
La riforma dello Stato si pone rispetto al Recovery Plan in rapporto di reciproca necessità: da essa gli investimenti sono abilitati e, viceversa, quegli investimenti trovano senso in questa riforma. Giusta, dunque, l’idea di ripensare la struttura stessa del governo e, tuttavia, molta strada rimane da fare nei palazzi che i piemontesi ristrutturarono 150 anni fa a Roma.
Rimarrà a Cingolani e a Colao la difficoltà di dialogare con
direttori generali abituati a ragionare per deleghe rigide e con
Ministeri che dalla “transizione” non sono formalmente interessati:
intervenire sull’efficienza energetica di caserme e scuole continuerà a
richiedere la collaborazione di altri dicasteri e di ottomila comuni. I
momenti di coordinamento esistono ma essi sono chiamati “tavoli” ed il
termine stesso fa plasticamente capire quanti spigoli ci sono da
superare per arrivare al buon senso: l’obiettivo minimo
dell’integrazione è la creazione di gruppi di lavoro permanenti che
nulla ha a che fare con incontri di negoziazione affollati e
inconcludenti.
Entrambi, poi, dovranno difendere la propria agenda che non può che
essere di creazione distruttiva (come per qualsiasi innovazione) da
mille interessi di lobbisti del vecchio. E continueranno a mancare alle
due transizioni quelle prospettive pluridisciplinari su cosa sta
succedendo nel mondo (soprattutto in Asia), che nelle amministrazioni
centrali non ci sono e che persino le università italiane frammentate in
centinaia di aree disciplinari faticano ad offrire.
Infine, sarebbe assolutamente essenziale che il tentativo di concepire strategie di trasformazione trovi una qualche continuità: la durata media dei governi in Italia rappresenta uno dei nostri più grandi svantaggi (come racconta il grafico che accompagna questo articolo) e la preoccupazione di chiunque voglia avere fiducia nella possibilità che il Recovery Plan sia attuato.
Ma alla modernità non si può rispondere altrimenti. Le competenze specialistiche e le amministrazioni concepite dalla stessa Costituzione per garantire stabilità sono, ormai, insufficienti. In fondo entrambe le transizioni sono quelle che ci devono far entrare in un secolo che è già cominciato vent’anni fa mentre eravamo impegnati a gestire un mondo che non c’è più.
IL MESSAGGERO
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