“Giorgia Meloni non ha paura di finire nel ghetto. La sua scelta pagherà”

“Giorgia Meloni ha fatto un discorso duro ma abile. Intransigente con Draghi e con l’Europa senza chiudere la porta all’opposizione patriottica”. Flavia Perina, scrittrice, giornalista ed ex direttrice del “Secolo d’Italia”, commenta il No al governo di FdI. “E’ stata l’unica a parlare ai suoi elettori dicendo: gli altri si sono acconciati, noi no. A differenza della destra storica, i giovani non temono che l’opposizione li rinchiuda nel ghetto dei partiti anti-sistema come fu per il Mis”.

Meloni è stata l’unica leader di partito a dire No a Draghi. Le è piaciuto l’intervento in aula a Montecitorio?

E’ stato un discorso duro, ma abile. Ha espresso una posizione di assoluta intransigenza, con una critica forte all’Ue e alle modalità di designazione del premier – con il paradosso della Corea del Nord – tenendo però la porta aperta a un’opposizione patriottica. E ha rifiutato radicalmente l’idea di Draghi salvatore della patria che tutti gli altri hanno accettato.

FdI non vota la fiducia a Draghi perché gli manca la legittimazione popolare. E perché il suo governo è troppo in continuità con il precedente.

Ha criticato i ministri con nome e cognome, cosa che in Parlamento non usa, perché parlava ai suoi elettori e simpatizzanti seduti davanti alla tv. Ha agitato le muletas davanti al toro: Speranza, Di Maio… I nomi che fino a poco fa anche Salvini e Berlusconi agitavano. E’ stato l’unico discorso che parlava non al palazzo bensì a chi ne sta fuori: io dico No, gli altri si sono acconciati.

Motiva il No con la lealtà agli elettori mentre Salvini motiva il Sì con la lealtà al Paese. Siamo nel campo dei princìpi o della tattica?

Anche Salvini ha dovuto dire Sì per lealtà ai suoi elettori: quelli del Nord. FdI non ha questo vincolo non avendo un elettorato così specifico, e in assenza di pressioni si è tenuto le mani più libere. Ha ponderato la scelta più conveniente nel breve termine per guadagnarsi un upgrade in Parlamento con le presidenze di Vigilanza Rai e Copasir e per occupare più spazi in tv come unica opposizione. Mentre nel medio termine spera in un aumento del consenso elettorale.

Secondo lei c’è margine ulteriore per il bacino della destra sovranista o è già arrivata al massimo?

Credo che ci sia un limite fisiologico tra il 14 e il 20%. Ma non dimentichiamoci che fino a poco fa FdI lottava per la sopravvivenza: nato nel 2013, alle Europee dell’anno dopo non supera la soglia di sbarramento del 4%. Alle Politiche del 2018 prende il 4,3% e solo alle Europee del 2019 il 6,4%. Vivono ancora l’euforia di avercela fatta, sono concentrati nel conservare il consenso. In più FdI è un partito piccolo senza correnti né ala “governista”.

Fino a che punto li si può considerare sul serio “diversamente europeisti”?

Sul versante dell’europeismo FdI ha fatto silenziosi passi avanti di cui nessuno si è accorto. Ricordo il documento del congresso fondativo: “Vogliamo uscire dall’euro perché è lo strumento dell’egemonia tedesca”. Erano molto più No Euro della Lega, è Salvini ad essersi accodato. E in sei anni Giorgia è diventata la versione più moderata di Matteo. Ritirando fuori la visione dell’Europa delle patrie ed evocando De Gaulle: un dibattito politico archeologico che però ha consentito di abbandonare il gruppo degli euro-estremisti scalando quello dei Conservatori e Riformisti.

L’opposizione fa parte della democrazia, e così le urne, protesta FdI. Viviamo in una “democrazia dimezzata”?

Il ragionamento non è infondato, non sono assurdità. Il presidente della Repubblica Mattarella ha spiegato con attenzione i motivi per cui non ha mandato l’Italia alle elezioni. E’ un problema che anche le istituzioni si sono poste, giungendo però a conclusioni diverse.

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