Paese legale e Paese reale: la scuola parli italiano

di Ernesto Galli della Loggia

Tutti gli italiani di qualunque orientamento ideologico, ma proprio tutti, incluso sono sicuro il nostro presidente del Consiglio, anche quando abitava a Francoforte, continuano a chiamarla «scuola elementare». Solo l’organizzazione ministeriale di viale Trastevere, i suoi funzionari, e un manipolo di addetti ai lavori invece, avendo deciso una trentina d’anni fa che bisognava chiamarla «scuola primaria», continuano imperterriti da allora a chiamarla così. Direi che già solo questo fatto — un Paese in cui i cittadini designano la scuola con un nome mentre la burocrazia ne adopera un altro virtualmente sconosciuto ai primi — indica bene il drammatico scollamento che a proposito dell’istituzione scolastica esiste in Italia tra «Paese legale» e «Paese reale». Indica bene come il primo si sia abituato a procedere in un’indifferente autoreferenzialità, tutto preso dalla cultura a cui da tempo s’ispira: una cultura vuota e formalistica, lontana dalla vita, abituata ad adottare ossessivamente gergalismi e termini inglesi con cui infarcire i propri interminabili documenti. Resi tali dalla particolare tecnica con cui sono abitualmente redatti, che potrebbe definirsi delle «scatole cinesi». Nei quali, cioè, ogni termine impiegato viene immediatamente seguito da una sua più o meno ampia definizione-spiegazione, ogni termine della quale è a sua volta sottoposto al medesimo procedimento, e così via in una successione che potenzialmente non ha mai fine.

Tra i documenti in questione merita di essere segnalato quello uscito un paio di mesi fa, tipico tra l’altro della sarabanda infernale di ordini e contrordini di cui si compiace da sempre la pubblica amministrazione italiana. In questo caso si tratta delle valutazioni di merito (dico merito a mio rischio e pericolo essendo il termine aborrito dall’ideologia del Ministero per la sua presunta connotazione discriminatrice), da adottare nella scuola elementare. Fino al 1977 tali valutazioni erano espresse, come si sa, con un numero, i famigerati voti dall’1 al 10. Da quell’anno, invece, i numeri, giudicati didatticamente troppo sommari e psicologicamente deprimenti, furono sostituiti con i «giudizi» verbali, adeguatamente personalizzati e quindi democratici (anche se nell’uso furono ridotti in breve a un repertorio di tre quattro formulette sempre le stesse). Inevitabilmente però, fatta la rivoluzione scattò immediata la controrivoluzione. E quindi non so più quale ministro della Vandea un bel giorno reintrodusse i voti. Trascorsi tuttavia alcuni anni, adesso si è deciso finalmente di porre fine allo sconcio: e pertanto di nuovo via i voti e di nuovo avanti con una inedita classificazione, articolata questa volta secondo la categoria dei «livelli di apprendimento».

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