La pandemia è a un nuovo culmine, ora serve una traiettoria italiana
di Paolo Giordano e Alessandro Vespignani
A un anno dall’inizio della pandemia, queste sono di nuovo ore di congetture. I decisori appaiono indecisi se proseguire nell’approccio portato avanti da novembre a qui, o puntare a un’azione di contenimento più vigorosa e, per una volta, preventiva.
I numeri e i trend non sono così eloquenti da imporre automaticamente una direzione oppure l’altra, Rt oscilla intorno alla soglia critica, le varianti si diffondono ma c’è uno scetticismo latente sul fatto che possano cambiare drasticamente la situazione.
Mentre non si capisce bene cosa sta per succedere, si azzardano un po’ tutte le ipotesi: andare avanti con i colori delle regioni, interrompere la prassi con un circuit-breaker di qualche settimana (tutta Italia in arancione o in rosso per abbassare i numeri), addirittura puntare spavaldamente agli zero contagi. Sono tutte strade possibili, ognuna imperfetta a modo suo e ognuna con i suoi costi sociali ed economici.
Dovrebbe apparire ormai chiaro che, nello scegliere una via o un’altra, la politica non fa «quello che dice la scienza», perché la scienza non può né deve scegliere. La scienza elenca le variabili in gioco, presenta i dati, li interpreta e, sulla base di tutto questo e nei limiti del possibile, elabora degli scenari.
Inoltre, le variabili sono ormai moltissime. La pandemia ha raggiunto un nuovo culmine, non di gravità stavolta, ma di complessità. La primavera scorsa, emotivamente straziante, era molto più semplice da leggere del momento attuale. C’era un virus nuovo e non esistevano cure né modi per fermarlo, se non distanziandosi il più possibile, a prescindere.
Ora no.
Accanto alle dinamiche del contagio (che già di per sé corre a velocità multiple a causa delle varianti), ci sono la campagna di vaccinazione in corso e gli effetti socio-economici sempre più significativi dopo un anno come quello trascorso. Ogni aspetto andrebbe considerato in relazione agli altri. Per esempio, l’inasprimento eventuale delle restrizioni va associato ai tempi previsti di vaccinazione, alle dosi in arrivo e così via.
Più il quadro si fa complesso, più il ruolo della politica diventa discriminante. Ciò che è rimasto immutato dalla primavera scorsa, tuttavia, è il lasciare che siano per lo più gli esperti a dibattere nel dettaglio la gestione della pandemia. Con tutte le fughe in avanti che questo genera di continuo, gli scontri anche scomposti, le opinioni un tempo genuine che nel frattempo sono diventate rappresentanza di questa o quella corrente di pensiero, la tendenza a privilegiare un’angolazione specifica rispetto all’insieme. La politica sempre un po’ nascosta dietro, ad aspettare che sia la gravità delle circostanze a rendere inevitabili le azioni.
Da ottobre a oggi è diventata sempre più consistente l’impressione di un’assenza di strategia organica. O per lo meno di una dichiarata. Ma senza una strategia di medio termine organica e dichiarata, è impossibile per chiunque valutare se quella strategia sia stata vincente e se sia stata implementata in modo corretto.
Chi scrive, per esempio, è stato favorevole mesi fa alla differenziazione delle misure di contenimento per zone. Ma il sistema dei colori è solo un metodo, e perde efficacia se non si fissano degli obiettivi chiari: vogliamo abbattere il numero di casi?, se sì, di quanto?, vogliamo invece rimanere sul plateau?, e come proiettiamo il rischio delle varianti di cui siamo a conoscenza ormai da dicembre?
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