Dimissioni Zingaretti, comunque vada sarà un fallimento

Che, sia pur tra mille contraddizioni, hanno quantomeno risolto il problema della leadership. Solo per il Pd il trauma coincide con una crisi strutturale, di leadership e di linea, tappa finale di anni in cui entrambe hanno mostrato una certa fragilità, sin dal momento in cui, prendendo in mano un partito devastato dal renzismo, al minimo storico dal dopoguerra, sull’Aventino della testimonianza, in un’accaldata assemblea Zingaretti urlò il suo “mai con i Cinque stelle”. Diventato due anni dopo un “mai senza Conte”, con la richiesta di voto quando la pandemia rende impossibile votare. In mezzo c’è la rinuncia alle urne quando tutt’altro che impossibili nell’estate del Papeete e, con essa, la rinuncia alla discontinuità: a palazzo Chigi l’uomo che aveva governato con Salvini, nessun vicepremier, l’accettazione del taglio dei parlamentari senza contropartite, i porti rimasti chiusi anche col nuovo ministro, facendo finta di non vedere. Anche in quel caso Zingaretti spiegò che fu costretto a subire la spinta di un partito che, alla sfida aperta, preferì tornare nella confort zone dei ministeri, in nome di una stabilità acritica che, nell’azione quotidiana del governo, si è trasformata in mediazione per la mediazione e immobilismo, anche in piena pandemia.

In fondo le dimissioni, o la minaccia delle dimissioni, consentono di congelare la discussione sulla prospettiva di un partito che, dopo aver passato due anni a incoronare come “punto di riferimento dei progressisti europei” l’uomo che aveva firmato i decreti sicurezza con Salvini, assiste alla fuga dei progressisti fotografata dal sondaggio di Swg verso il nuovo capo dei Cinque stelle. Ruolo che lo stesso ha sempre ricoperto di fatto, ignorando le famose richieste di “svolta”, abusata parola pronunciata dal segretario del Pd senza conseguenza alcuna.

Nel frattempo, ovunque si è votato quell’alleanza non ha mai vinto (Umbria, Liguria, Marche) mentre dove si è vinto (Emilia, Toscana, Campania, Puglia) è accaduto grazie alla capacità di convincere quel popolo di un Movimento in rotta, senza cedere ai rituali del politicismo, alle chiacchiere sull’alleanza “strutturale”, al populismo pandemico di chi, sullo stato di eccezione, ha costruito una narrazione e un potere svincolato dalla realtà. Comunque vada a finire è un punto di non ritorno, anche in caso di ritorno del segretario, perché tutti i nodi irrisolti restano tali.

L’HUFFPOST

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