John Elkann e il secolo dell’Avvocato: “Non avrebbe temuto il virus e sarebbe orgoglioso di Draghi”

La pandemia ha stravolto il corso della Storia, ha cambiato forse per sempre le nostre vite e il nostro rapporto con la morte. Suo nonno avrebbe avuto paura?
«No, assolutamente. Sono convinto che non avrebbe avuto paura del Covid. Avrebbe esercitato la massima attenzione, questo sì, nei confronti del virus e delle sue conseguenze. Ma soprattutto avrebbe cercato di aiutare chi è nel bisogno, e avrebbe incoraggiato a usare l’ingegnosità per trovare soluzioni. Sarebbe stato felice di ricevere questo vaccino realizzato a tempo di record: un atto di fiducia in uno straordinario risultato della ricerca e della cooperazione internazionale».

In tutta onestà, Ingegner Elkann: è più facile avere fiducia, per un Agnelli…
«In verità lui ha vissuto un secolo molto complicato, senza mai sottrarsi alle sue responsabilità. È nato nel ’21, ha vissuto sulla sua pelle il fascismo e la Seconda Guerra Mondiale, la fine della monarchia e la ricostruzione, gli anni di piombo e il terrorismo, il boom degli Anni ’80 e Tangentopoli, il crollo della Prima Repubblica e le difficoltà della Seconda. Ma non ha mai perso la fiducia, il coraggio di affrontare a viso aperto le crisi e la volontà di superarle ogni volta. Anche nei momenti più bui, come quello che stiamo attraversando ora».

Come avrebbe immaginato l’uscita da questo tunnel?
«Avrebbe ragionato sulle strategie necessarie a vincere la paura e l’incertezza. Ci avrebbe sollecitato ad usare al meglio la tecnologia e ad affrontare la sfida ambientale. Ci avrebbe stimolato a trovare soluzioni creative e credibili. Soprattutto: avrebbe puntato molto sui giovani».

L’Avvocato amava l’Europa, ci ha sempre creduto fin dai primi passi e anche nei momenti in cui la casa comune ha vacillato: le polemiche sull’euro, la tragedia greca, la crisi dei debiti sovrani…
«Sì, credeva nel progetto europeo: apparteneva alla generazione che aveva visto le conseguenze di due guerre mondiali. Sono settantacinque anni che nel Continente regna la pace. Non dobbiamo mai dimenticarlo».

Oltre all’Europa, c’era l’America: Agnelli era amico di Kennedy e di Kissinger. Cosa avrebbe detto di Trump e dell’onda populista che ha sommerso l’Occidente in questi anni?
«Mio nonno andò per la prima volta in America a 18 anni. Ne fu molto impressionato, ai suoi occhi rimase sempre un paese dinamico, costantemente proiettato verso il futuro. Un tratto che, in fondo, permane ancora oggi».

E sul pericolo dei sovranismi e il rischio della de-globalizzazione cosa avrebbe pensato?
«Il populismo lo conosceva bene. Con il suo vissuto storico, avrebbe distinto i regimi assoluti di ieri – di destra o di sinistra – dai populismi di oggi, che non avrebbe apprezzato ma che restano pur sempre democratici. Avrebbe ironizzato sui populisti contemporanei, confrontandoli magari con Evita Perón. Avrebbe respinto le idee troppo facili, come il processo di deglobalizzazione, restando ben cosciente dei rischi della mercatizzazione senza regole. Ma come disse nel suo ultimo discorso al Senato: “dove passano le merci non passano gli eserciti…”».

Globalizzazione, merci, eserciti: la novità geopolitica più rilevante dei nostri anni è l’ingresso sulla scena di una super-potenza come la Cina. Questo l’Avvocato non ha fatto in tempo a vederlo…
«La Cina non faceva parte dei suoi orizzonti, perché era ancora un Paese chiuso. Oggi non lo è più e la sua dimensione è determinante: basti pensare che è il più grande mercato automobilistico al mondo. Noi lì stiamo crescendo, come dimostra il nostro ultimo investimento Shang Xia, per sviluppare insieme ad Hermès una grande realtà del lusso cinese. Tra l’altro i miei figli studiano il mandarino, oltre all’inglese».

Quanto vi ha condizionato questa sua apertura al mondo, questa sua natura “apolide”?
«Per noi è stata decisiva. Di quella natura le nostre vite familiari sono un “di cui”. Lui ci ha educato al multiculturalismo. I suoi luoghi sono stati anche i nostri. Per ragioni affettive, ma poi anche lavorative. Un bagaglio esistenziale e professionale che ha spinto la nostra generazione ad andare oltre, verso l’Asia».

Ma prima, durante e dopo c’era l’Italia e c’era Torino. Quanto contava la città, per lui?
«Torino era la sua casa. Amava questa città, ci è nato, ci è vissuto, ci è morto. Gli piaceva ciò che Torino è: una città italiana, ma vicina alle Alpi e all’Europa. Una città laboriosa, concreta e seria, legata alla tradizione ma sempre proiettata verso l’innovazione. Gli piaceva anche ciò che rende Torino diversa, con una sua originalità, e anche una sua certa eccentricità».

Che nonno è stato per voi?
«È stato un nonno vero, molto presente. Si interessava a noi e per noi era uno stimolo continuo. Amava la velocità, e tutto si faceva più veloce insieme a lui, era come se si passasse alla marcia superiore. Per bambini come noi essere presi in considerazione da un adulto era fantastico».

Ingegnere, quando si parla dell’Avvocato si fa sempre una certa fatica a immaginare una “normalità”. Cosa c’era di normale, nella sua e nelle vostre vite? E quanto pesava in voi, rispetto all’Italia e a Torino, la responsabilità di essere la “famiglia Agnelli”?
«Era consapevole delle sue responsabilità, ma non lo faceva pesare. Entrava in sintonia con tutti, e a tutti si rivolgeva con rispetto e attenzione. Questo è ciò che ci ha insegnato».

L’Avvocato fu il primo a capire la necessità per la Fiat di una grande alleanza internazionale. Lei conserva ancora il carteggio tra lui e Lee Iacocca tra il 1986 e il 1990. Oggi come considererebbe gli accordi con Chrysler e poi con Peugeot?
«Sarebbe contento. Intuì e disse prima degli altri che nel mondo dell’auto sarebbero rimasti sei o sette grandi player globali. Oggi, con Stellantis, siamo uno di questi player. È un traguardo importante, ma è un punto di partenza, sicuramente non di arrivo».

Un altro motto di suo nonno era “quello che va bene per l’Italia va bene anche per la Fiat”.
«Mio nonno ha amato profondamente l’Italia, e l’Italia lo ha molto amato. Le tante manifestazioni di affetto che abbiamo visto in occasione dei suoi funerali sono state straordinarie: il lungo abbraccio degli italiani, che hanno voluto salutarlo così».

Ma nel rapporto tra l’azienda e il Paese qual è stato il “saldo” tra il dare e l’avere?
«Il rapporto è stato positivo per tutti, e lo è tuttora. I vantaggi sono evidenti, basta guardare al contributo dato in più di 100 anni di attività imprenditoriale, ma anche al ruolo svolto dalla Fondazione Agnelli, oltre alle attività sociali e solidali realizzate dalla mia famiglia. Un impegno che continua soprattutto in questo momento difficile che il nostro Paese sta affrontando».

Oggi però vi contestano di aver spostato all’estero il baricentro del gruppo.
«La realtà è diversa. Siamo stati in grado di crescere molto nel mondo in questi ultimi vent’anni e questo ha rafforzato anche le nostre attività italiane, perché sono ormai parte di una realtà più grande, che ha valorizzato e potrà valorizzare ancora di più la nostra italianità».

Suo nonno si è sempre confrontato con il palazzo romano. Ma a parte Ciampi, col quale aveva un rapporto forte, per il resto era piuttosto diffidente nei confronti dei partiti. Cosa penserebbe della politica di oggi?
«Sarebbe stato molto orgoglioso di un presidente del Consiglio come Mario Draghi. Avrebbe cercato di aiutare l’Italia a gettare le basi dello sviluppo con il Recovery Plan e la transizione ecologica. Soprattutto avrebbe espresso una forte fiducia nel futuro».

A proposito di ambiente, tra le sue frasi più note c’è anche questa: “Mi sono simpatici gli ecologisti, ma hanno programmi costosi: non si può essere più verdi delle proprie tasche”. Secondo lei oggi la ripeterebbe?
«Oggi cercherebbe soluzioni coraggiose ai problemi dell’ambiente. Sapendo bene che la risposta non è la decrescita, ma che lo sviluppo, per garantire vero progresso, deve essere sostenibile. Gli sarebbero piaciute e avrebbe incoraggiato le tante iniziative in questa direzione, come il Green Pea di Farinetti, o quelle che stiamo facendo direttamente, come il lancio della 500 elettrica. Sarebbe stato molto curioso di Greta: sicuramente avrebbe voluto incontrarla, dedicandole l’attenzione che riservava sempre ai giovani».

Siamo agli altri tre grandi amori dell’Avvocato: la Juventus, la Ferrari, la Stampa. Della Juve diceva “non è un affare, è una passione che condividiamo con milioni di italiani”. È così anche per lei?
«La Juve è il grande amore di tutta la nostra famiglia. Siamo gli unici, nel mondo, ad aver mantenuto un rapporto così forte e longevo con un club sportivo. Sarebbe stato fiero e felice di vivere l’ultimo decennio: 9 scudetti consecutivi, quasi il doppio dei 5 che lui visse da bambino negli Anni ’30. Avrebbe sposato la scelta coraggiosa di mio cugino Andrea: dopo un decennio così ricco di grandi successi, puntare su un allenatore e una squadra giovani per costruire il futuro».

Per la Ferrari forse sarebbe diverso. Una volta, quando l’Avvocato disse al mitico Enzo “voi siete abituati a vincere”, il Drake rispose “no, noi siamo allenati a vincere”. Che penserebbe oggi, dei magri risultati della Rossa?
«Sarebbe deluso, come lo siamo tutti noi tifosi della Ferrari. Ma io sono ottimista, perché abbiamo due piloti giovani: non sono “abituati a vincere”, ma hanno tanta voglia di allenarsi per vincere. Con la loro umiltà e determinazione stanno contagiando tutta la squadra».

Arriviamo a La Stampa: suo nonno la amava, ma amava in generale i giornali e l’informazione.
«Sarebbe stato molto orgoglioso del fatto che la sua famiglia, dopo più di un secolo, continui ad avere il suo giornale, ed ora abbia costruito un polo editoriale leader in Italia e in Europa. Diciamo la verità: La Stampa dentro la Fiat era un’anomalia. Mentre oggi fa parte di un gruppo che ha l’ambizione di conquistare il futuro rimanendo un punto di riferimento culturale per tutto il nostro paese».

Sia sincero: qual era il difetto più grande di suo nonno?
«Ne aveva, come tutti noi ne abbiamo. Ma soprattutto, e non le sembri un paradosso, aveva i difetti delle sue qualità: talvolta la velocità con la quale viveva diventava impazienza o incostanza. Così lasciava per strada qualcosa, o qualcuno».

L’ultimo ricordo che ha di lui?
«Le sue ultime ore. Aveva una certezza: morire come aveva vissuto, in azione. Invece se n’è andato nella sua casa in collina, nel suo letto, con sua moglie e noi accanto. C’era silenzio, c’era pace».

LA STAMPA

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