Ogni donna, una storia. La mimosa di un anno fa non è mai sfiorita
Francesca Paci
A ripensarci adesso, l’8 marzo dello scorso anno è stato l’ultimo giorno di libertà totale, l’ultima boccata d’aria prima che l’allora premier Giuseppe Conte annunciasse, livido e solenne, la chiusura per Covid-19 dell’Italia intera. Ci scambiavamo mimose insolentemente floride, ma la festa era già finita.
Bisogna ripartire da lì per rinnovare gli auguri di una ricorrenza che sarebbe meglio fosse inutile e invece non lo è, le settimane in cui l’avvocato trentasettenne Zhang Zhan volava da Shanghai a Wuhan per capire e raccontare sul suo blog gli ospedali, i crematori, la pandemia che la Cina si ostinava a negare, definendola «polmonite misteriosa». Zhang Zhan, una giovane normalissima donna. Né puttana né santa. Una che, mentre altri citizen journalist come lei sparivano dai radar, ripeteva il mantra irriducibile, «chi di noi in questo Paese ha a cuore la verità deve dire che se ci crogioliamo nelle nostre tristezze e non facciamo niente per cambiare la nostra realtà, allora le nostre emozioni non valgono niente». A dicembre l’hanno condannata a 4 anni di prigione per aver detto la verità: lei, in cella ormai da mesi, ha ascoltato la sentenza farsa sulla sedia a rotelle, smunta, esangue, lo sguardo vitreo. L’hanno udita mormorare che «la libertà di parola del popolo non dovrebbe essere censurata», poi è stata portata via, ammanettata eppure inafferrabile, come le giornaliste bielorusse Katerina Bakhvalova e Daria Chultsova, accusate di fomentare la rivolta contro Lukashenko, come l’attivista polacca Marta Lempart, che rischia otto anni di carcere per essersi opposta alla crociata anti-abortista del governo di Varsavia.
Il senso del 2020 per l’8 marzo è un volto di donna su cui, come rughe scavate dalla mascherina, sono scritte le infinite pene di questi mesi di frontiera, dilatati, asfissianti, la globalizzazione del male. Ne abbiamo scelte sei per dirle tutte, ogni donna una storia. C’è Zhang Zhan, che porta sulle spalle il peso della peste contemporanea e c’è Anita Iacovelli, 12 anni, la studentessa torinese che, con il sole e con il gelo, ha trascorso la quarantena seduta al suo banco davanti alla scuola media Italo Calvino per protestare contro la didattica a distanza e convincere il governo a far tornare in classe migliaia di ragazzi come lei. Anita, in guardia dal cliché che banalizza qualsiasi Marianna, non vuole essere paragonata a Greta Thunberg. E non perché la disapprovi. «Sono Anita e basta», ripete e guarda dritto con la radicalità di una generazione post politica.
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