Il Pd sfinito per volontà di governo
Massimo Cacciari
La realtà dolorosa, ma vera – solo questo ha significato Zingaretti con la sua “esternazione”. Possono fingere di meravigliarsene soltanto coloro che l’hanno costretto al passo, inguaribili ipocriti o micro-ceto politico interessato a sopravvivere e basta. Il Pd è da tempo non un insieme, ma un mucchio di forze eterogenee il cui denominatore comune consiste in una strenua “volontà di governo”, camuffata sotto il velame delle parole-mantra di “stabilità” e “responsabilità”. Il suo gruppo dirigente, con rarissime eccezioni, si è formato nella competizione interna per l’acquisizione di posti di poteri, invece che nella effettiva rappresentatività in Comuni, Regioni, settori dell’opinione pubblica.
Zingaretti ora lo dichiara apertis verbis – ma lo ignorava al momento delle primarie e della nomina a segretario? Non si era candidato appunto per sconfiggere questa deriva del partito? O per che altro? Allora, sarebbe interessante non scoprire l’ovvio – che il Pd è quella cosa che Zingaretti dice – ma perché l’obbiettivo della sua rifondazione è fallito, che cosa ha portato alla sconfitta. Colpa di Renzi e dei renziani? O magari di Calenda? O di qualche loro amico annidato nei gruppi parlamentari? La demonizzazione del rappresentante del Rinascimento fiorentino(e arabo) va molto di moda in questo periodo – spiegazione miope, di comodo, spiegazione che nulla spiega. Zingaretti ha fallito perché non ha affatto seguito la linea che l’aveva portato alla vittoria nelle primarie, non ha affatto dichiarata aperta una fase di rifondazione del partito, non ha neppure avviato un cantiere di costruzione di un suo nuovo gruppo dirigente. Vi si opponeva la ferrea volontà di non andare a casa dei gruppi parlamentari, certo. Ma forse che Zingaretti l’ha scoperta a posteriori, dopo la sua candidatura a segretario? C’è stato e c’è di mezzo il maledetto Covid, certo. Ma forse che è impossibile ragionare di politica e decidere modalità e linee di un congresso durante una epidemia? Anzi, proprio l’accelerazione violenta di tutti i processi di cambiamento che questa ha prodotto avrebbe dovuto rafforzare la volontà di discussione, di confronto, di rinnovamento. Se Zingaretti è andato avanti per 18 mesi a furia di compromessi con i suoi naturali avversari, di rimandi, di indecisioni, perfettamente in stile coi diversi governi che si sono succeduti, fino a giungere al triste e irrevocabile annuncio che “il re è nudo”, ciò non si deve a debolezze tattiche o destini cinici e bari, ma all’incomprensione delle contraddizioni di fondo che attanagliano il Pd fin dalla fondazione e a mancanza di visione e strategia sul ruolo che una grande forza politica riformatrice può giocare in Italia e in Europa.
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