Il Pd sfinito per volontà di governo

Il Pd nasce da un formidabile equivoco, che non si vuol chiarire, che si rimuove da 15 anni sistematicamente. E non è detto che finalmente si affronti neppure ora, malgrado il quasi epitaffio dettato da Zingaretti – potrebbe perfino darsi che si esca dalla imminente Assemblea con un nuovo pastrocchio, se il segretario uscente non terrà duro e non motiverà davvero le sue dimissioni. L’equivoco consisteva nell’idea – praticata nei fatti, se non teorizzata – di una “spontanea” conciliabilità tra un welfare di ispirazione paleo-socialdemocratica e modelli di politica finanziaria ed economica derivanti dalla prepotente affermazione nel corso degli anni ’80 e ’90 delle teorie e politiche liberiste. Il Pd nasce contraddicendo il principio di non contraddizione, vuole essere questo e l’altro a un tempo e sotto il medesimo rispetto: predica nei fatti politiche in deficit e, insieme, subisce il diktat europeo della stabilità ueber alles. Non comprende che le prime sono ormai insostenibili e che il secondo va combattuto e l’Unione europea riformata radicalmente. Sviluppo è possibile e, anzi, necessario, ma può passare soltanto attraverso un riassetto istituzionale e amministrativo che riduca drasticamente la spesa pubblica, elimini ogni fonte di spreco, e decida conseguentemente in quali settori concentrare le risorse disponibili. Nipotini del socialismo europeo novecentesco, incapaci di rinnovarne l’eredità, liberal-liberisti convinti tout court del suo fallimento, ex-popolari stressati dalla concorrenza di nuove destre, non sanno trovare alcuna destinazione comune e si dedicano a competere gli uni contro gli altri per la spartizione(e lo sperpero) delle rendite acquisite. C’è chi sogna – all’inizio – un Pds allargato grazie al contributo gratis degli ex Dc. C’è poi chi prefigura un Macron che svuota i socialisti – come appunto riuscirà al Macron di Francia. C’è infine l’eterno “centro” del primum vivere, il perenne grembo democristiano, che dai contrasti altrui riemerge sempre come àncora di sopravvivenza.

Come tenere aperte prospettive simili dopo le dichiarazioni di Zingaretti? Per tutti dovrebbe risultare chiaro che non vi è “salvezza”nel protrarre compromessi tra correnti, che tali neppure sono, poiché vi è corrente, in un partito, solo nella misura in cui ciascuna sappia declinare in forme particolari una prospettiva strategica comune, in cui ciascuna interpreti a modo suo un “dramma” condiviso. Se sulla stessa scena si recitano “drammi”diversi regna la confusione indigeribile e si andrà all’inevitabile naufragio anche elettorale. Zingaretti dovrà ribadire, motivandola culturalmente e storicamente, la propria posizione, che può significare questo soltanto: il Pd va rifondato come il partito delle riforme di sistema sul piano istituzionale e amministrativo, come la forza che lotta per politiche fiscali e di redistribuzione del reddito contro le dilaganti diseguaglianze; per politiche industriali non assistenzialistiche, capaci di promuovere i settori davvero in grado di produrre nuova occupazione; per un europeismo non retorico, in grado di smantellare le elefantiache sovrastrutture burocratiche e normativistiche che zavorrano l’Unione. Se Zingaretti vuol salvare non il Pd, ma la possibilità stessa di un’area autenticamente riformatrice nel Paese, dovrà fare non un passo indietro, ma centomila in avanti nella direzione che la sua “uscita” ha nei fatti aperto, quella di un congresso in tutti i sensi decisivo. Qualsiasi altra strada può portare soltanto a un anno di battaglie nel bicchier d’acqua semi vuoto del partito, in vista della spartizione di candidature per le prossime politiche, magari assistendo alla contemporanea ripresa dei 5Stelle guidati da Conte in stile Macron.

LA STAMPA

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