Guerre culturali e silenzi intorno e dentro al Pd
di Paolo Mieli
Bisogna dar atto a Nicola Zingaretti di essersi comportato da italiano perbene, di quelli che, se annunciano le dimissioni, poi ne traggono le conseguenze e vanno fino in fondo. Semmai gli si può rimproverare di aver motivato l’addio mettendo insieme la richiesta di primarie che saliva dalla periferia (del tutto legittima) e un’opaca guerra per le «poltrone» sulla quale non ha saputo o voluto essere più circostanziato. Resta il fatto che si è impegnato a lasciare il Nazareno e domenica prossima, a quanto pare, tornerà in Regione Lazio. Verrà sostituito, si dice, da Enrico Letta, sicché tra una settimana il Pd e il M5S di Giuseppe Conte saranno guidati da due ex presidenti del Consiglio il che renderà i rispettivi partiti più solidi. E, soprattutto, più forti nel dialogo con il governo presieduto da Mario Draghi oltreché nella contrattazione per la scelta del futuro capo dello Stato. Se tutto andrà al meglio per loro, alle elezioni politiche le due formazioni del centrosinistra potrebbero avere anche un vantaggio su quelle del centrodestra. Qualora riescano a conquistare la maggioranza dei seggi alla Camera e al Senato, i due partiti avranno pronta la soluzione per il governo della prossima legislatura: il leader di quello che avrà ottenuto più voti andrà a Palazzo Chigi, l’altro, se vorrà, gli farà da vice.
Certo l’immagine del Pd non è uscita rafforzata dal terremoto di vertice. «Da quindici anni non vinciamo una elezione politica, ma per oltre undici siamo stati al governo», ha constatato con amarezza Gianni Cuperlo. Il Pd è ormai «impermeabile ai sentimenti e alle passioni… congegnato per restare serbatoio di governo e sottogoverno», ha sentenziato implacabile Erri De Luca. Zingaretti lascia un’organizzazione politica che, secondo Luca Ricolfi, «per la profondità e capillarità della sua occupazione dei gangli del potere è macchina di autopromozione più di qualsiasi altro partito». Il Pd, a detta di Arturo Parisi, è «un partito governista destinato nei fatti ad essere subalterno a chiunque gli prometta di riportarlo al governo». Lo stesso Parisi si è poi mostrato immalinconito da quel genere di assemblee dem «che da sempre ruzzolano inarrestate verso il voto finale, ogni volta uguale: unanime». Questi — e altri mille dello stesso tenore — sono i commenti di osservatori dall’interno del Pd o, in ogni caso, non ostili al Pd.
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