Pd, il quasi sì di Enrico Letta (e il nodo del Congresso)

Perché dalla passione politica non ci si dimette, nonostante tutto, e certe ragioni del cuore risultano inspiegabili anche per la ragione. Perché anche se sei una riserva della Repubblica e della sinistra, tra le più stimate, le più autorevoli arriva un tempo in cui, se dici no, è complicato rimanere tale attendendo un’altra chiamata, di questi tempi poi. Perché proprio una riserva della Repubblica e della sinistra non può rimanere indifferente al momento straordinario tale da mettere in discussione scelte pensate come irreversibili.

Per tutte queste buone ragioni le 48 ore chieste da Enrico Letta per “riflettere” possono legittimamente essere lette sostanzialmente come un sì e, al tempo stesso, come un ragionevole tempo per valutare e, in qualche modo, creare le condizioni. Il caos che sarebbe determinato, a due giorni dall’assemblea, da un suo rifiuto è sufficiente per indurre a miti consigli le anime inquiete del Partito democratico, almeno per ora.

Il punto critico, e che presumibilmente è anche l’oggetto di questa riflessione, non è il valore della persona, la sua capacità, l’autorevolezza né il largo consenso interno su cui può contare. È la riformabilità del partito e la possibilità di intaccare, o meglio cambiare, o meglio ancora stravolgere, i meccanismi di fondo che hanno portato il segretario uscente a dimettersi “vergognandosi” di un partito che conosce solo l’autoreferenzialità del potere, affidato al gioco delle correnti. Letta, la sua chiamata a salvare il salvabile, è frutto di un doppio default: quello del Pd, nell’ambito del più generale default della politica che ha prodotto il governo Draghi. Se il problema fosse solo trovare un accordo nel caminetto delle correnti, non si capirebbe la ragione per cui si è dimesso Zingaretti, forte di una legittimazione popolare alle primarie e di una solidità di consensi del partito. E invece la crisi è più profonda, tale da richiedere un mutamento radicale non solo di equilibri, ma di mentalità.

È piuttosto naturale dunque che ci si interroghi sulla agibilità in questo contesto, non potendo contare il nuovo segretario su un mandato popolare altrettanto forte perché, con tutto il rispetto, il voto online di mille persone non ha lo stesso peso di un grande fatto popolare come i gazebo. Il nodo non sciolto riguarda proprio questo, la parola “congresso”, attorno alla quale, con buona dose di strumentalità, è ripartito il grande valzer delle correnti. Chi lo chiede, i cosiddetti ex renziani, da Delrio a Nardella, ha in mente uno schema che porta, il prossimo anno quando si spera che la pandemia sia finita, alla candidatura di Stefano Bonaccini, con l’idea di avere, prima delle politiche, un nuovo segretario e una nuova maggioranza che faccia le liste elettorali. Chi, come Dario Franceschini e Nicola Zingaretti, insomma l’attuale maggioranza, immagina di arrivare con Letta al 2023, ha l’idea opposta, che è sì un modo per blindare Letta come segretario con pieni poteri, e non come un re travicello che traghetta verso il congresso, ma anche per blindare se stessa, sulle liste e sul proprio potere di condizionamento del nuovo corso.

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