Pd, il quasi sì di Enrico Letta (e il nodo del Congresso)

Sembra che questa sia anche la condizione posta da Letta per accettare, e uno dei motivi per cui si sia preso due giorni, in modo da valutare l’intensità delle reazioni e i margini di “unitarietà” che il suo nome produce, tenendo conto che anche tra gli ex renziani ci sono sensibilità diverse e Lorenzo Guerini non è Lotti. Al netto però della strumentalità resta, ragionando fuori dagli equilibri di potere, un tema di fondo: può permettersi il Pd, con tutto quello che è successo – la pandemia, il governo Conte, Draghi, eccetera eccetera – che, ove possibile, si possa rinviare una discussione interna col proprio popolo di qui alle politiche? Questo rinvio giova al nuovo segretario o sarebbe utile, innanzitutto a lui, avere un mandato più forte – popolare – proprio per rinnovare il partito e realizzare quel cambiamento che proprio le parole del segretario uscente rendono non rinviabile? La questione non è di poco conto, non perché lo chiedono gli oppositori, ma proprio in virtù del mandato implicito nella sua segreteria. Dentro la quale, con ogni evidenza c’è anche la candidatura a premier in uno schema di alleanza competitiva con i Cinque stelle di Conte: chi prende un voto in più esprime il candidato per palazzo Chigi.

Se invece questa esigenza venisse rimossa in nome di una logica secondo cui lo stesso assetto viene mantenuto da un nuovo segretario, sarebbe poco elegante per il nuovo, chiamato a fare il notaio, e umiliante per il vecchio. Segno che la sua denuncia è stata accolta come un crollo di nervi e, trovato uno che li ha più freddi, è possibile proseguire con l’andazzo di prima. In definitiva che il partito è come l’Urss, un sistema irriformabile da dentro finché non precipita un evento esterno. 

L’HUFFPOST

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