Mario Dragons

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di   Massimo Gramellini

Smartworking, babysitting… chissà perché dobbiamo sempre usare tutte queste parole inglesi», è sbottato alzando gli occhi dal foglio su cui le aveva appena lette e forse anche scritte. La sorpresa è stata notevole, dal momento che non si trattava di un sovranista e nemmeno di un linguista sconvolto dal «ferst reasccion sciakk» renziano, bensì di colui che ci viene raccontato come il portavoce delle élite senza patria. Uno che la sua frase più celebre l’ha pronunciata in inglese: «Whatever it takes», a ogni costo, qualunque cosa accada.

Qualcosa in effetti è accaduto. Approdato al secondo discorso pubblico in una settimana, Draghi ha cominciato a scongelarsi, azzardando commenti a braccio e persino una lieve mobilità delle sopracciglia. Non che domani assumerà Rocco Casalino e si metterà a inanellare dirette notturne su Facebook, però sembra avere accettato la prassi della comunicazione come noi la siringa del vaccino: una sofferenza necessaria. A sancirne la metamorfosi è giunta l’uscita contro lo pseudoinglese, che dal lessico delle aziende è precipitato nel linguaggio comune. Draghi si iscrive così a Prima l’Italiano, gruppo di pressione (ancora bassa, purtroppo) dove convivono due tipologie: quelli come me che preferiscono l’italiano perché parlano male l’inglese, e quelli come lui che, proprio perché lo parlano benissimo, usano l’inglese solo quando si trovano all’estero, dato che in Italia possono concedersi il lusso di privilegiare la lingua di casa senza passare per provinciali.

CORRIERE.IT

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