Letta torna contro venti e maree

Autoassegnandosi questo ruolo, ha governato o co-gestito il governo bevendo ogni volta il calice amaro delle alleanze più eterogenee, più spurie, più innaturali. Dal governo Monti in poi, è stato un continuo donare sangue a coalizioni altrimenti anemiche e per lo più emergenziali. Ieri con Berlusconi ed Alfano, oggi con Di Maio e Salvini. Fino a perdere il suo, di sangue. Nell’esercizio volontario di una funzione alta e nobile, e in nome della “responsabilità”, la sinistra progressista ha gradualmente annacquato e fatalmente smarrito quello che gli era più intrinseco e caro all’epoca della Dc e del Pci: la sua identità. Per condividere di volta in volta la Res Publica con “l’altro da sé”, non si è accorta del cedimento progressivo che nel frattempo ha consentito sui suoi valori (l’uguaglianza e la solidarietà, come insegnava Norberto Bobbio) e sui suoi principi (la difesa dei diritti e la tutela dei più deboli, come spiega Marco Revelli). Per assicurare all’Italia il rispetto minimo dell’ordine costituzionale e della fedeltà occidentale, ha fatto della partecipazione ai governi quasi un obiettivo “in sé”. Ha confuso l’amministrazione dello Stato (alla quale si è votata) con la trasformazione della società (per la quale era nata). Ha sacrificato le riforme sull’altare degli apparati. Ha rinunciato a elaborare e a esercitare qualunque forma di egemonia culturale, per dirla con Gramsci: lasciandola ad altri oppure, peggio ancora, a nessuno.

Così si è prodotta la più deprimente delle dissipazioni politiche contemporanee: la sinistra si è ritrovata senza popolo, e il popolo si è ritrovato senza sinistra. Attenta agli incarichi di governo e/o di partito, subalterna al pensiero unico della destra liberista pre e post Lehman Brothers, la nomenklatura del Pd non ha studiato né compreso i mutamenti radicali della modernità: la svalorizzazione del lavoro e l’esplosione delle disuguaglianze, la globalizzazione dell’economia e l’innovazione tecnologica, le migrazioni bibliche e i cambiamenti climatici. E non ha più saputo con che cosa sostituire la cara vecchia “lotta di classe”: cioè a chi dare voce, a chi offrire una tutela, un’opportunità, un’idea di futuro. Zingaretti che cinguetta il sostegno a Barbara D’Urso per l’annunciata chiusura del suo programma, proprio nel giorno in cui il procuratore capo di Milano intima ai giganti delle consegne a domicilio di assumere 60 mila rider “trattati come schiavi”, è solo l’ultimo epifenomeno di una distopia che da quelle parti dura ormai da anni. E che oggi rende possibile quest’altro paradosso. C’è un’Internazionale Populista e Sovranista che non è affatto in disarmo, anche se ha subito un doppio tracollo con l’elezione di Von der Leyen nella Ue e la sconfitta di Trump in America. C’è una pandemia che semina morte e squaderna il tema cruciale di una revisione profonda del Welfare novecentesco. C’è un Recovery Plan europeo che ci regala una straordinaria occasione per modernizzare il Paese. E il Pd non ha niente da mettersi. Eppure ancora una volta la sinistra avrebbe nei suoi armadi non i soliti scheletri del comunismo (il Gosplan e il Piano Quinquennale), ma i vestiti giusti del keynesismo che servono a gestire la fase (un fisco equo per lo sviluppo, uno Stato investitore e regolatore). Ora che si tratta di proteggere, e non più solo di liberare (come scrive Le Monde) persino il “moderato” Macron abbandona il suo progetto di “start up-nation” e lancia una nuova stagione di “liberal-statalismo”.

È in tutto questo che precipita la leadership di Enrico Letta. Il nuovo segretario non avrà l’investitura popolare delle primarie, e questo rende comunque necessario un prossimo congresso. Ma gli strumenti teorici li possiede tutti: la credibilità internazionale, l’esperienza istituzionale e la formazione culturale. Quelli pratici un po’ meno e nel 2014, al tempo del “Enrico stai sereno”, gli costarono il governo. Tuttavia il messaggio postato l’altroieri sui social, tra operazione “verità”, ricerca dell’unità e mobilitazione dei circoli, promette bene: si intuisce una sana voglia di sporcarsi finalmente le mani, non solo tra gli apparatciki collusi, ma anche tra gli elettori delusi. Letta possiede comunque quello che in questo momento conta di più: il fortissimo legame con l’Europa, riconosciuto e riconoscibile. Malgrado i numeri restino quelli del 2018, è per questa via che il suo Pd può provare a raggiungere tre risultati fondamentali. Diventare davvero l’azionista di riferimento del governo Draghi, ispirandone e condividendone le scelte. Condizionare a sinistra il superamento dell’entropia pentastellata, costruendo un “asse degli ex premier” con Conte. Prosciugare a destra l’acqua nella quale nuota Salvini, ritessendo la tela strappata dei rapporti tra il Pd e il “Quarto Partito”, quello dei ceti produttivi. Solo lui, che nel 2004 fece con Bersani un tour di tre mesi nei distretti industriali del Nord, può provarci. E magari chissà, dopo aver riavvolto il nastro della legge elettorale ed essere sfuggito alla trappola della riforma proporzionale, un giorno potrebbe persino tentare un altro miracolo: rinverdire la famosa “vocazione maggioritaria” della sinistra riformista. Ma non prima di averne liquidato, una volta per tutte, quella “suicidaria”.

LA STAMPA

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