Gli equilibri di governo e le spinte opposte
Se a questa asimmetria, già di per sé destabilizzante, fra destra e sinistra di governo , aggiungiamo il probabile rafforzamento del polo di sinistra come effetto del cambio al vertice del Pd, comprendiamo perché siano in azione due forze che spingono in direzione opposta. Nel senso della stabilizzazione ma anche della destabilizzazione del governo in carica.
Ci sono troppe incognite per capire quale di queste spinte prevarrà. Se tra qualche mese il governo potrà vantare un netto successo nell’attuazione del piano di vaccinazione della popolazione e nella lotta alla pandemia ciò dovrebbe bilanciare le spinte destabilizzanti provenienti dalla destra della coalizione che sostiene Draghi (la destra di governo potrebbe allora sentirsi meno esposta alla concorrenza di Fratelli d’Italia).
C’è un altro aspetto collegato alla nomina di Letta da considerare. Non ha a che fare con la navigazione del governo Draghi ma riguarda il futuro della politica italiana. Che ne sarà dei progetti neo-centristi coltivati da molti (non solo da Matteo Renzi) in questi anni?
Molto dipende da come evolverà il rapporto fra il Pd e i grillini. Se Letta non riuscirà, come non ci è riuscito Zingaretti, a fare del Pd la forza trainante e dei 5 Stelle quella trainata (i numeri, al momento, dicono che sarà per lui difficile riuscirci) e se, per conseguenza, faticherà a dialogare, come si propone, con il mondo imprenditoriale, allora si aprirà uno spazio al «centro» dello schieramento che qualcuno cercherà di riempire.
Chi punta a creare una formazione di centro, sa che dovrà fare i conti con la legge elettorale in vigore. La rinascita del centro, ovviamente, sarebbe agevolata dall’adozione di una legge elettorale proporzionale «pura». Ma l’ingresso di Salvini nella coalizione di governo esclude questa possibilità. Peraltro, non è neppure probabile un ritorno al sistema maggioritario (quasi) puro di un tempo (che taglierebbe le gambe ai centristi) data l’opposizione dei 5 Stelle. Tutti, aspiranti centristi inclusi, dovranno quindi vedersela con le «impurità», ossia con l’attuale sistema elettorale misto (proporzionale più una quota di collegi uninominali ove vige il principio maggioritario). Il sistema in vigore non agevola i progetti centristi ma neppure sbarra loro definitivamente la strada.
Il problema è se davvero, come a un primo sguardo sembra, in un eventuale «centro» si accalcherebbero più leader che elettori. In teoria, ma solo in teoria, si può ipotizzare che esista un bacino di elettori non piccolo, lontano, per sensibilità, cultura e interessi, da entrambi i poli, di sinistra e di destra, per come sono oggi organizzati. Però il successo o l’insuccesso di qualunque impresa non dipende solo dall’esistenza di una «domanda» potenziale. Dipende anche dal modo in cui è confezionata l’offerta. Il vertice del partito centrista sarebbe occupato da un solo leader, in quanto tale capace di unificare una formazione inizialmente eterogenea e dotato dell’autorità necessaria per parlare a nome di tutti? Oppure ci sarebbero tanti aspiranti leader pronti a beccarsi l’un l’altro trasmettendo agli elettori l’immagine di un partito diviso e inconcludente? Il partito centrista saprebbe fabbricarsi una «carta d’identità» da mostrare agli elettori, ossia saprebbe formulare, in modo univoco, due o tre chiare proposte di governo? Fino a oggi sinistra e destra hanno lasciato un vuoto nel centro dello schieramento. Forse Letta riuscirà a coprire il vuoto. E forse no. Se non ci riuscirà, non è comunque detto che possa farlo qualcun altro.
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