Letta rianima il cacciavite
Più di Papa Francesco, evocato a proposito di “un patto generazionale per uscire da questo difficile momento”, più di Jacques Delors e una certa idea dell’Europa, più di Enrico Berlinguer citato emotivamente – già: l’importanza di chiamarsi Enrico quando sei chiamato a guidare la sinistra – se, come spesso accade, nel Pantheon c’è il senso del discorso, il nome che meglio lo riassume è quello di Romano Prodi. Non solo perché più volte nominato come “faro” ed espressione di una politica “progressista nei valori, riformista nel metodo, radicale nei comportamenti”. Ma perché l’intera relazione di Enrico Letta è permeata di un certo spirito ulivista: la ricostruzione di una comunità, la partecipazione, l’incontro dal basso tra culture, l’alternanza, l’importanza delle “coalizioni”. Che non è nostalgia, amarcord, sguardo rivolto al passato, ma una cultura politica e un metodo: la ricostruzione graduale, senza scosse e senza clamorose rotture che conserva ciò che è necessario e innova fin dove è possibile, nell’ambito di solidi ancoraggi di storia e valori.
Insomma, “l’anima e il cacciavite”, perché la ricerca dell’anima senza cacciavite è pratica esoterica, e il cacciavite senz’anima è mera manutenzione. Questo il paradigma, in fondo rassicurante, anche in una situazione in cui, volendo, il neo segretario, chiamato a salvare il salvabile prima che sia troppo tardi, avrebbe potuto usare il lanciafiamme di fronte al collasso del Pd dopo nascita del governo Draghi, alla traumatica denuncia del segretario uscente, dimessosi provando “vergogna” per un partito dedito solo a discettare di poltrone e incarichi, di fronte cioè alla crisi della sinistra senza un’identità, che non sia il governo di turno e senza popolo, con l’urgenza di ritrovarlo e di riscoprirlo proprio nel momento in cui la crisi più devastante del dopoguerra lo muta anche morfologicamente.
C’è, nel discorso di Letta, una consolidata cultura di governo, che non è una novità per chi, finora è stato considerato, il più “tecnocratico” tra i politici o il più politico tra i “tecnocrati”. La novità è la nuova consapevolezza maturata negli anni di studio a Parigi, perché l’altare dopo la polvere non è come l’altare raggiunto quasi come predestinato, anni di telefono che non squilla e di ricostruzione della vita fuori dalla dimensione del potere. È la consapevolezza che la sconfitta personale è diventata il paradigma della sconfitta della sinistra italiana in questi anni, rimasta al governo senza aver mai vinto le elezioni, smarrendo progressivamente un punto di vista autonomo nella società italiana fuori dalla dimensione del potere fino a diventare quasi un corpo estraneo nella società, di cui ha rinunciato a rappresentare le masse profonde, trasformandosi nel famoso partito della Ztl: “ Se diventiamo il partito del potere – dice – moriamo. Dobbiamo andare al governo vincendo le elezioni e dobbiamo farlo senza aver paura di andare all’opposizione”.
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