La sfida rischio-sicurezza fa del caso vaccini un dilemma

di Antonio Polito

«L’inglese ama immaginarsi sul mare, il tedesco in una foresta», diceva Elias Canetti. Dunque il primo sa che il rischio è la sola via al successo, il secondo cerca innanzitutto la sicurezza, e le subordina tutto il resto. Le due polarità europee sono davanti ai nostri occhi in queste ore. La Gran Bretagna ha scelto un approccio utilitaristico al tema dei vaccini, fondato sul calcolo costi-benefici; la Germania ha sospeso la distribuzione di AstraZeneca, sulla base del principio di precauzione. Nel mondo anglosassone, di solito, un comportamento è consentito fino a che non sia stato provato che è dannoso; sul continente è vietato finché non sia stato provato che non fa danni.

Sul piano dell’etica è estremamente difficile, se non impossibile, assegnare torti e ragioni, scegliere la cosa giusta, quando si tratta della vita umana, anche di una sola vita umana. Tra chi dice che bisogna agire contro la pandemia «a ogni costo» e chi pretende che l’intervento sia «a nessun costo» ci deve per forza essere una via di mezzo. Oggi parliamo del rischio (eventuale e non provato) che poche persone abbiano ricevuto un danno da un vaccino che evidentemente arreca un vantaggio a milioni di essere umani. Ma è un dilemma che in altri termini si propone quotidianamente nelle nostre società. Pensiamo agli incidenti stradali. Nessuno proporrebbe di fermare il traffico autostradale a causa delle vittime. Allo stesso tempo nessuno negherebbe la necessità di rivedere le condizioni di sicurezza di un tratto di strada dove si ripetano degli incidenti. Un mero calcolo costi-benefici può portare a conclusioni crudeli, come nei protocolli sanitari che all’inizio della pandemia stabilivano a chi fornire le cure ospedaliere in condizioni di emergenza, quando non c’erano abbastanza letti di rianimazione per tutti. Ma ogni volta che il pericolo è letale e imminente, e si agisce in stato di necessità, una comunità sa che combattere comporta rischi, che vanno ridotti al minimo, certo, ma accettati.

Quando gli scienziati ci dicevano che la campagna vaccinale contro il coronavirus sarebbe stata una «prima volta» nella storia dell’umanità, non abbiamo prestato loro abbastanza attenzione. Stiamo facendo un esperimento su una scala e con modalità mai viste, grazie a vaccini scoperti e prodotti con una rapidità mai conosciuta. Siamo più fortunati degli esseri umani di tutte le epoche precedenti. Ma era perciò scontato che intoppi, ritardi e problemi sarebbero insorti. Guai a quei Paesi che sono partiti più tardi nel valutarli, noi tra loro.

Nei confronti della scienza oscilliamo tra lo scetticismo e il fideismo. La ricerca è il progresso, soprattutto in medicina; ma non può produrre verità assolute, valide per sempre, bensì «solo» leggi probabilistiche, basate sul metodo sperimentale del «trial and error», tentativi ed errori. Quello scientifico è un sapere fondato su un processo continuo e ininterrotto di verifica, mai accertato una volta per tutte.

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