Solo superando le trappole otterremo l’immunità

Che i soggetti interessati ne siano consapevoli o meno, le radici dell’avversione ai vaccini hanno più legami con una visione politica che con una cognitiva. Rifiutare i vaccini, benché mascherata da argomentazioni pseudoscientifiche, è spesso una manifestazione di rifiuto del sistema, rifiuto di un certo tipo di ordine costituito vissuto come schiacciante e illegittimo. Il corpo viene interpretato come l’ultimo baluardo che quel sistema non avrà la possibilità di violare, su cui non eserciterà alcuna forma di controllo. Su convinzioni a priori di questa natura non è facile incidere, forse è impossibile, se non con gli obblighi stringenti ed esercitando, quindi, una porzione di quella stessa violenza di cui il sistema viene accusato. Se è vero ciò che dicono alcuni exit poll vaccinali, che la quota di no-vax irriducibili in Italia oscilla intorno al dieci per cento, non si tratta di un problema trascurabile per l’immunità collettiva, ma è qualcosa che possiamo riassorbire, che non pregiudica l’impresa, su cui risparmiare energie e tempo.

Curioso è notare, sempre con le dovute distinzioni, che certe critiche degli ultimi giorni contro le istituzioni che hanno disposto lo stop ad AstraZeneca — si è parlato di «scelta assurda» e «danno incalcolabile» — abbiano una radice affine di sfiducia nel sistema. Nascono dallo stesso presupposto che la scelta dell’interruzione non possa essere stata fatta su alcuna base razionale, di legittima cautela, ma solo sull’onda dell’emotività, della stupidità e della pressione mediatica. Vero è che, almeno stando alle evidenze a nostra disposizione, era difficile identificare dei motivi solidi. Così, ognuno di noi si è trovato ancora una volta a giudicare in base non alla realtà ma alla propria struttura di pensiero a priori: mi fido oppure no del sistema che regola la vita sociale? Nel frattempo, il vuoto di spiegazioni e il riflesso condizionato di frustrazione facevano sbocciare attorno alla scelta dei governi tutta una serie di ipotesi complottiste nuove di zecca.

Parte del malanimo per i ritardi e gli intoppi, che pure dovevano essere messi in conto in un’operazione così massiccia, è dovuta alla mancanza di un’alternativa valida per gestire il tempo in mezzo. Se si fosse investito adeguatamente sulle infrastrutture di sorveglianza epidemica, non vivremmo in modo così esacerbato la tensione «vaccini o clausura», perché non ci sarebbe. Ma questo suona ormai come un discorso vecchio, me ne rendo conto. Molto più attuale è il confronto diretto, anch’esso deprimente, con Paesi quali Regno Unito, Stati Uniti e Israele, che corrono più di noi. Ma nel raffrontarci a loro non teniamo in debita considerazione che le differenze non sono solo organizzative: ci sono sfumature culturali, normalmente sotto traccia ma amplificate dalla situazione, che cambiano gli esiti, primo fra tutti una loro maggiore inclinazione al pragmatismo (ne ha parlato ieri Antonio Polito). Nel caso del Regno Unito questa inclinazione è stata evidente, talvolta con risvolti preoccupanti, in ogni fase della pandemia.

Comunque sia, tra i no-vax e gli indignados dell’interruzione di AstraZeneca si colloca la percentuale molto più cospicua degli italiani dubbiosi. Tutte le variazioni dei «sì, ma non adesso», «sì, ma non quello», «magari tra qualche mese», «non mi convince del tutto». Timori che hanno un loro fondamento, se non di razionalità scientifica, almeno di ragionevolezza umana. La vaccinazione è un’azione molto più delicata di quanto venga normalmente proclamato, investe aree ampie dell’intimità e del credere: si tratta di farsi inoculare qualcosa, di alterare il nostro organismo, con tutte le suggestioni che ne conseguono. In più, attorno alla vaccinazione specifica per il Covid, si sono addensate delle diffidenze nuove. La rapidità con cui i vaccini sono stati resi disponibili (un successo della modernità, che per molti risulta sospetto), la varietà di vaccini, gli inevitabili aggiustamenti in corsa sui modi e i tempi di somministrazione, questo stop e gli altri che ci saranno, la quantità di sorprese spiacevoli che il Covid ci ha riservato in soli dodici mesi e che ce ne fa presagire altre, la stanchezza: tutto questo contribuisce a creare in molti delle riserve istintive più che comprensibili. E che andrebbero innanzitutto rispettate.

Va inoltre considerato che alcuni, e forse non così pochi, potrebbero affidarsi a un calcolo ben più che razionale: il mio particolare contributo nell’essere vaccinato non è strettamente necessario alla causa, perché se lo fanno gli altri io sarò protetto comunque, senza essermi esposto nemmeno a quei pochi decimali di effetti collaterali. È il rovesciamento del «proteggere me stesso per proteggere tutti» della primavera scorsa: «non proteggere sé stessi per essere protetti da tutti». Ma il ragionamento, oltre a uno smaccato egoismo, presenta una falla. E quella falla coincide, forse, con la motivazione più solida che possiamo offrire nell’opera di persuasione che ci attende.

La campagna vaccinale è stata presentata da diversi esperti come una specie di interruttore, che raggiunta una certa soglia spegnerà il contagio, eliminando il problema del tutto. È un eccesso di semplificazione ed è probabile che non avverrà nulla del genere. Le soglie dell’immunità di gregge sono variabili e dipendono da molti fattori: dal tempo di immunizzazione indotto dai vaccini (ancora largamente incerto), dall’imporsi eventuale di varianti che ne alterino l’efficacia, dall’esclusione, almeno per un po’, degli under sedici dalla campagna, dal fatto che l’Italia non è un’isola sperduta in mezzo al Pacifico ma un territorio poroso e comunicante con aree del mondo in cui la situazione non sarà omogenea alla nostra. Allo stato attuale l’immunità di gregge, tirata in ballo di continuo dall’inizio della pandemia, potrebbe essere una chimera. Lo scenario più plausibile è, in effetti, quello di una transizione verso l’endemicità del virus, con recrudescenze stagionali. Almeno per un po’.

Questo non significa affatto che lo sforzo in atto sia votato al fallimento, né che il nostro obiettivo sia lontanissimo. Al contrario. Esiste una tappa intermedia molto vicina, già in vista, passata la quale la nostra situazione sarà sostanzialmente diversa. Da qualche parte intorno all’ottanta per cento della popolazione vulnerabile vaccinata — della popolazione vulnerabile soltanto —, la curva dei contagi e quelle di ospedalizzazioni e decessi si disaccoppiano. Ovvero: da quel momento in poi, a una crescita anche rapida dei contagi non consegue più una crescita implacabile, qualche settimana dopo, delle terapie intensive e dei morti. Gli ospedali non saranno più minacciati e i decessi crolleranno. Vaccinata quella percentuale di persone fragili avremo spezzato la linea temporale che ci tiene in scacco da un anno e potremo permetterci perfino un po’ di circolazione virale in più (che, paradossalmente, contribuirà ad accelerare l’immunizzazione collettiva).

Tuttavia, oltre quella tappa fondamentale, il Covid esisterà ancora e sarà lo stesso di prima, con la sua percentuale di casi gravi e di decessi anche tra i non vulnerabili, con i suoi strascichi lunghi di spossatezza. Ci saranno ancora focolai. Sarà possibile, per molti mesi e a meno di non essere personalmente vaccinati, prendersi la malattia. La scelta, in questi termini, diventa ben posta e tutto sommato semplice, perché non riguarda più la comunità ma soltanto me: preferisco rischiare il Covid o «rischiare» il vaccino, qualsiasi cosa queste espressioni suscitino nella mia mente? La scienza e i dati non lasciano dubbi al riguardo, ma può darsi che i dubbi restino comunque. La mente umana è fatta così, valuta i pericoli a modo suo. Se i dubbi restano, vanno fugati, con pazienza e disponibilità all’ascolto. Vediamo di farlo con tutte le energie, affinché si disaccoppino al più presto le curve del contagio, ma senza disaccoppiarci noi, prima, dai timori delle persone. Perché, se accade, avremo perso tutti.

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