A un anno da Bergamo/L’assuefazione al dolore e l’immagine di quelle bare

Carlo Nordio

Il dottor Johnson diceva che le catene dell’abitudine sono troppo leggere per essere avvertite, finché non diventano troppo pesanti per essere spezzate. Il geniale scrittore, così attento al significato delle parole da dedicarvi il più bel dizionario della lingua inglese, sapeva che la nostra imperfetta natura è capace di adattarsi a tutto, persino al dolore fisico, quando il mutamento avviene in maniera graduale. 

A distanza di un anno esatto dal lugubre corteo di bare che uscì da Bergamo sugli autocarri dell’esercito, pare che anche noi ci siamo abituati a questa strage giornaliera, che sembra ormai una ripetitiva cronaca di eventi marginali. Così marginali che, mentre il numero dei defunti supera la spaventosa soglia dei centomila, l’allarme suona per qualche isolato decesso attribuito, finora senza nessun elemento probante, all’unica arma in grado di fermare questa strage, i vaccini. Questione, appunto, di assuefazione. Ma andiamo per ordine. 

Se dovessimo compilare un elenco dei mutamenti che la pandemia ha introdotto nella nostra quotidianità, non sapremmo da che parte cominciare. Diamo dunque per noto ed assodato che la limitazione delle relazioni sociali, la didattica a distanza, la chiusura dei ristoranti, la riduzione delle prestazioni ospedaliere, il fallimento di varie attività, l’eterna polemica tra virologi e clinici, la trasformazione  dei passanti in fantasmi mascherati, la ritualità delle abluzioni sanificatrici, la compressione delle energie in aggressività claustrofobiche ecc. siano ormai accettate, o comunque vissute con rassegnata passività. 

Uno degli esempi più significativi è costituito dall’abbandono di alcuni diritti costituzionali, a cominciare da quello di movimento. Un Paese che si era sbranato sulla legittimità di trattenere per pochi giorni a bordo di una nave alcuni immigrati irregolari, ha disciplinatamente subito una generalizzata e rigorosa semidetenzione domiciliare. 
Tutto questo risponde a un’esigenza che si può sintetizzare nella saggia espressione “primum vivere deinde philosophari”.

La sopravvivenza precede ogni altra considerazione, prima del companatico bisogna pensare al pane e prima dei merletti bisogna avere le camicie. Nessuna sorpresa dunque se ci siamo abituati a questa sovranità limitata. Non siamo dei pecoroni inebetiti, come non lo è il resto degli europei: siamo semplicemente convinti, a torto o a ragione, che in caso contrario i funerali aumentano, gli ospedali soffocano e anche l’economia collassa. Si fa così perché non c’è alternativa: la necessità non conosce legge, e al resto provvede, appunto, l’abitudine. Anche a quella dell’elenco dei morti, l’anno scorso rappresentato dalle bare di Bergamo e oggi relegato all’interno dei giornali come un ordinario bollettino atmosferico. 

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