Un trauma salutare per un cambiamento vero

La sensazione complessiva è stata quella di una persona molto sicura di sé e di quello che deve fare; e anche per questo in grado di trasmettere fiducia a un’Italia che la miscela di crisi economica e pandemia rende spaventata e disorientata. Le spiegazioni che ha dato sulla sospensione del vaccino di AstraZeneca; le proiezioni sulla campagna dei prossimi mesi; gli aiuti che il governo darà ai poveri; la tranquillità con cui ha spiegato l’esigenza di «dare soldi e non chiedere soldi» finché c’è la pandemia: sono tutti pezzi di una strategia che non contempla né annunci enfatici né allarmismi. Lascia intuire un percorso già tracciato, che prevede non scontri tra Stato e Regioni ma correzioni graduali e condivise dei comportamenti.

Draghi si è limitato a dire un «non va bene» quando a livello locale ci si muove «in ordine sparso». E in parallelo ha descritto un intero Paese pronto a mobilitarsi per fare meglio. È riuscito a inquadrare in una cornice di puro pragmatismo, senza veleni ideologici, anche un argomento divisivo come il prestito europeo del Mes sulla sanità. Quando ci sarà un piano ben definito, ha spiegato, deciderà il Parlamento se prendere o meno quei soldi. Il cambiamento di stile e di linguaggio è oggettivo. Ma va detto che Draghi è aiutato da una situazione così compromessa per il sistema politico, da consegnargli le chiavi del futuro del Paese.

Sa di avere creato molte, troppe aspettative. E sembra consapevole anche che possono trasformarsi in delusioni. Ma ormai governa, e vuole andare avanti facendo presto e nel modo migliore. Gli equilibri del passato sono già saltati, e il premier probabilmente è insieme il sintomo e la causa di questo cambiamento radicale. Ma l’accelerazione non è figlia della subdola volontà di qualche potere sovranazionale; semmai, dell’inadeguatezza di chi ha mostrato limiti di competenza e di strategia. Le resistenze riemerse ieri dall’interno della coalizione confermano che alcune logiche sono dure a morire.

Gli stessi canoni del sovranismo populista sembrano arretrare tatticamente, ma sopravvivono, pronti a riaffacciarsi alla prima occasione; e la principale sarebbe un fallimento del tentativo di Draghi. Forse sarebbe bene che il «fronte conservatore» disseminato lungo l’intero arco parlamentare si rendesse conto della profondità dei cambiamenti in atto. E invece di vivere questo laboratorio unitario e inedito come una minaccia, si rivelerebbe lungimirante accettandolo non come una parentesi da chiudere presto, ma come un trauma salutare per reinventarsi e rimettersi in piedi.

CORRIERE.IT

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