Restart-up: dieci modeste proposte per ripensare il settore
Terzo: basta buzzword. Innovare vuol dire creare l’onda, non limitarsi a provare a cavalcarla. Questo vale soprattutto per gli startupper, ma anche per gli investitori. Hanno capito quasi tutti il gioco che se scrivi nel pitch che usi l’intelligenza artificiale o la blockchain anche se non ce l’hai è più facile che ti finanzino perché è il tema del momento e quindi che poi altri mettano soldi nei round successivi e forse poi riesci a fare exit. Ma questo non è innovare, è speculare. Che non è necessariamente una brutta parola, ma è un’altra cosa. Non crea valore economico, posti di lavoro, crescita per tutti, ma dividendi – spesso temporanei – per pochi (nel 2018 la mediana del numero di dipendenti delle start-up incubate in Italia era 1, nonostante fossero mediamente attive da 3,8 anni).
Quarto: l’idea è importante. All’inizio l’idea era tutto, ora non vale niente: l’unica cosa che importa è l’execution (l’attuazione o l’implementazione no, troppo spartano). Non è così: servono entrambi. Un’idea non è una strategia, né tanto meno una tattica; non è il tuo vestito da cambiare a ogni girar di vento: è il faro che dà senso alla tua impresa. Certo, deve essere solida e non improvvisata; non necessariamente “disruptive” – anzi, anche meno – ma che abbia senso. Se non hai un’idea, non stai creando valore: stai solo cercando un’opportunità. E se non sai cos’è, hai anche meno possibilità di trovarla quell’opportunità, banalmente perché non sai come identificare uno spazio di mercato – figurarsi creartelo (solo il 30% delle startup registrate in Italia risulta in utile rispetto al 66% delle società di capitale classiche, mentre la mediana del fatturato di quelle incubate è 34mila euro).
Quinto: i conti contano. Uber brucia miliardi ogni anno, e ha ampiamente dimostrato di non avere un business plan sostenibile. Questo non può, non deve essere un esempio da seguire. La tattica “intanto prendi quote di mercato e poi si vedrà” non è solo quasi sempre economicamente insostenibile: è eticamente riprovevole. Nessuna start-up dovrebbe entrare nel mercato senza un business model che sta in piedi economicamente, almeno su carta o foglio Excel. Poi, certo, qualche anno di perdita e quindi di investimento ci può stare, ma non deve diventare lo standard per spazzare via la concorrenza e alterare il mercato (Satispay, la start-up da molti indicata come il possibile “unicorno” italiano e partita con oltre 6 milioni di euro di finanziamento prima di entrare nel mercato nel 2015, nel 2017 ha perso 6 milioni di euro, 9,5 milioni nel 2018 e 13 milioni nel 2019: vedremo il futuro).
Sesto: partire dai bisogni, non dai desideri. Siamo sicuri che il mercato abbia davvero bisogno di una nuova app di food-delivery? O dell’ennesimo algoritmo per fare matching tra azienda e candidato (e chissà come mai LinkedIN non ce l’ha)? In questo momento storico abbiamo davvero bisogno di un altro servizio fintech o di trading on-line? Guardare le aree di azione delle start-up “unicorno” (tecnologia, internet, finanza, spazio…) e confrontarle con gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Uniti (povertà, disoccupazione, salute, educazione…) fa abbastanza impressione. Sì, è vero che le due cose non si escludono, ma non è neanche normale che siano così distanti. Volete essere dei leader? Cercate di rispondere ai bisogni in maniera nuova, invece di solleticare vecchi desideri o crearne di nuovi. Se non altro, perché il mondo sta andando in quella direzione.
Settimo: calcolare le esternalità negative. Certo, una pista ciclabile tech è una bella cosa, ma quante terre rare estratte dalle miniere del Congo servirebbero se ce ne fossero centinaia di chilometri? Se anche riesci a mettere in pista un servizio di taxi-volanti (auguri!) chi potrà permetterselo? Quanto inquinamento aggiungerebbe? Come impatterebbe sul traffico aereo? Ogni progetto di impresa, anche il più etico e innovativo, ha delle esternalità negative. Bisogna provare a prevederle e calcolarle per capire come correggerle, mitigarle e, nel caso, avere il coraggio di abbandonare il progetto.
Ottavo: non prendere in giro i nuovi startupper. C’è qualche giovane – o meno – entusiasta ma ancora “acerbo” che vuol provare a creare una sua attività? Evitiamo di irretirlo con la retorica “se vuoi, puoi” per magari convincerlo a prendere uno spazio in coworking o riempire una sedia a un corso finanziato. Piuttosto, facciamogli una consulenza seria per capire se l’imprenditoria è la sua strada e se il suo progetto ha davvero qualche possibilità di farcela. Può bastare sorprendentemente poco: un test dell’idea di business o un colloquio fatto con onestà e serenità. Ma bisogna cominciare anche a promuovere una diversa cultura del lavoro, e l’idea che non abbiamo solo bisogno di imprenditori, ma anche e soprattutto di dipendenti, e in particolare per compiti oggi bistrattati o considerati sub-lavoro come quelli di cura o esecutivi. E soprattutto, non raccontiamogli che è un sistema “meritocratico” se chi è ricco di famiglia e può rischiare subito decine di migliaia di euro parte avvantaggiato.
Nono: abbandonare l’inevitabilismo tecnologico. Se guardassimo agli articoli di tecnologia e innovazione di qualche anno fa, oggi dovremmo avere tutti la stampante 3D in casa, camminare per strada schivando droni e avere il frigo che parla con forno grazie alla internet of things. L’idea che la tecnologia sia il Fato contemporaneo, una forza inane e inarrestabile, ha creato una percezione diffusa di un futuro esclusivo, cioè di un luogo dove solo pochi “eletti tecnologici” ce la faranno, e il resto o si aggiorna o affonda – e, anzi, è giusto così. Questa visione del futuro è alla radice di quasi tutti i nostri problemi di oggi, e tra questi buon ultimo la oramai diffusa percezione negativa del termine “start-up”. Non è un grande affare inimicarsi o deprimere le persone che compongono il tuo mercato.
Decimo: prendersi (molto) meno sul serio. Sempre in risposta al mio primo articolo, un professore universitario ha scritto su Twitter: «Le start-up stanno all’economia come i neonati alla demografia». Ecco, no. Al massimo, stando in analogia, sono i nati in zona 1 a Milano. Il mondo del digitale non è l’alfa e l’omega dell’innovazione, e lo start-up system costituisce un fattore economico assolutamente secondario: la vera economia vive d’altro. Certo, non vuol dire che sia inutile o che non possa avere un ruolo. Anzi. In questa epoca storica i soldi vengono e verranno sempre di più dallo Stato, dalle Banche Centrali. I bisogni sociali e di welfare saranno giganteschi, e i rischi da esternalizzare tanti (si prevede che serviranno altri 373 miliardi per il Welfare europeo entro il 2040). La macchina statale, allargandosi, farà sempre più fatica a innovare, a provare soluzioni nuove. Ecco, questo potrebbe e dovrebbe essere il prossimo ruolo per lo start-up system: fare innovazione sociale dal basso, ma per davvero e su bisogni reali. E lasciare alle università la vera ricerca tecnica e tecnologica, e ai giganti del tech esercitarsi con l’AI o la guida autonoma senza continuare a portargli l’acqua con le orecchie.
L’HUFFPOST
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