Deriva centralista/ «Lo Stato c’è e ci sarà» Anche dopo la pandemia
Tutte cose che ovviamente nessuno di noi individualmente potrebbe
fare. Tutte cose che per definizione richiedono grandi capacità
organizzative, la mobilitazione di una massa enorme di uomini e donne,
risorse finanziarie a dir poco ingenti, quali solo la grande macchina
dello Stato può offrire. Non deve dunque sorprendere se anche democrazie
liberali di antica tradizione in questo frangente storico si siano
convertite – spinte dall’urgenza, pressate dagli stessi cittadini – a
politiche centralistiche e di stampo dirigista-assistenziale, che spesso
si sono tradotte in forme di limitazione coattiva della libertà di
movimento di milioni di persone.
Il problema, oltre la contingenza che sembrerebbe giustificare qualunque
decisione politica purché assunta nell’interesse pubblico e per il bene
comune, è quale eredità mentale e quali abitudini sociali potrà
lasciare quest’affidarsi degli individui ad uno Stato sempre più
percepito come un potere tutelare e protettivo, del quale non si può
fare a meno se si desiderano una vita salva e un’esistenza tranquilla. E
dal quale, in cambio di maggiore sicurezza, si è disposti ad accettare
anche che ci controlli nelle nostre azioni quotidiane, come ormai grazie
alla tecnologia è facilissimo fare.
Coloro che hanno cara la tradizione liberale, fondata sui limiti del potere e sul contenimento del carattere fisiologicamente espansivo dello Stato, temono esplicitamente uno scenario del genere. Ma anche coloro che hanno sempre sostenuto il ruolo attivo dello Stato nel governo della società farebbero bene a preoccuparsi. Uno Stato, quali che siano la sua forza reale e le funzioni più o meno grandi che vogliamo attribuirgli, difficilmente può funzionare bene se ha dinnanzi a sé solo cittadini impauriti, rassegnati, passivi, apatici, acquiescenti e disposti ad accettare senza discutere qualunque decisione purché ci appaia rassicurante delle nostre ansie private.
Costretti da mesi ad una condizione di cattività domestica, limitati nelle nostre relazioni sociali e affettive, inclini a vedere nel prossimo una potenziale minaccia alla nostra integrità fisica, più che la perdita della libertà a causa di un potere volontariamente oppressivo – come temono i complottisti che paventano una dittatura sanitaria globale – quel che rischiamo, anche quando la pandemia sarà terminata o sconfitta, è di assuefarci ad un’idea della politica (e ad una visione dello Stato) paternalistica, protettivo-curativa di mali o paure spesso irrazionali, sostitutiva dell’impegno o partecipazione individuale, meramente assistenziale, neutralizzatrice dei conflitti che sono il sale della democrazia e che finisce per scambiare il riconoscimento dovuto dei diritti sociali con la lungimirante benevolenza del governante di turno.
Politicamente sarebbe una regressione gravissima, l’eredità peggiore della pandemia, della quale purtroppo già si intravvedono molti segnali.
IL MESSAGGERO
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