Dantedì, il 25 marzo 1300 iniziava il viaggio oltremondano del Poeta
Quel che è anche più grave, abbiamo perso il rispetto della forza e della pregnanza della parola. Il nostro vocabolario è sempre più povero, banale, inutilmente anglicizzato, svuotato dei suoi significati più profondi. Non siamo più capaci di fare della grande poesia, ben piantata nella realtà del proprio tempo, uno strumento «alto» di battaglia politica. «Per viltade», gli intellettuali si sono autoconfinati in un ruolo di marginalità nemmeno pittoresca.
Dimmi come parli e come scrivi, e ti dirò chi sei. La qualità della scrittura, la forza rivelatrice della vera letteratura sono andate a farsi benedire. Interessano a pochi sopravvissuti, sono considerate orpelli inutili. La responsabilità della parola si perde nell’esercizio truffaldino di narrazioni interessate, demagogiche, fatte per incantare i creduloni e le anime semplici.
Dante semplice non è. È complesso. È difficile. È sempre più difficile, visto che le nuove generazioni lo devono scalare, non per colpa loro, con una strumentazione culturale che il più delle volte è al di sotto del minimo sindacale.
Dante è faticoso, e non vogliamo più fare fatica, parola diventata impronunciabile. Vogliamo risparmiarla a noi stessi e, cosa anche più grave, ai nostri figli. Ma se non ci attrezziamo per scalare (anche e in primis) la montagna dantesca, propiziamo una caduta interminabile in una irrilevanza che è civile prima ancora che culturale.
Dante è portentoso, è irraggiungibile. Davanti alla perfezione di tanti versi, ci chiediamo sbigottiti: ma come ha fatto? Come è potuto arrivare a tanto, di botto, senza maestri? È la stessa domanda che ci facciamo quando ascoltiamo Bach, Mozart o Beethoven, quando ci fermiamo davanti alla grande arte. Il miglior modo per onorare il Dantedì è ritrovare questo stupore, questa resa commossa davanti allo strapotere del genio che ci chiama a superare i nostri modesti limiti.
LA STAMPA
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