La solidarietà che serve all’Europa

MASSIMO GIANNINI

La solidarietà che serve all’Europa

«La pandemia del coronavirus è una tragedia umana di proporzioni potenzialmente bibliche… E’ necessario un cambiamento di mentalità, al pari di quello operato in tempo di guerra… Ci serva da monito la memoria delle sofferenze degli europei durante gli Anni Venti… Dobbiamo sostenerci l’un l’altro, come europei, per affrontare questa che è, evidentemente, una causa comune». Era giusto un anno fa, e Mario Draghi pubblicava sul Financial Times un suo “Manifesto” della nuova Europa al tempo del Covid. Un testo in cui invocava la nuova “anima solidale” nell’Unione, il nuovo ruolo degli Stati nella protezione dei cittadini, la nuova gestione espansiva dei debiti pubblici, la cancellazione dei debiti privati da parte delle banche. Neanche lui, allora, poteva immaginare che quella bozza di programma gli sarebbe tornata utile oggi, da capo del governo italiano e punto di riferimento di un’Europa purtroppo ancora priva di quella “anima solidale” che servirebbe a fronteggiare una crisi sanitaria, sociale ed economica senza precedenti.

Sembrava esagerato il richiamo draghiano alle “piaghe” dell’Uomo narrate dalla Bibbia. Purtroppo non è così. Da quel marzo 2020, nel mondo il virus ha mietuto 2 milioni e 800 mila vittime e 125 milioni di contagiati. Nella media dell’ultima settimana, l’Italia è prima per numero di morti al giorno (411) e terza per numeri di nuovi casi (22.978). La più grande campagna vaccinale della Storia inciampa sulle nequizie dell’Unione e sulle furbizie di Big Pharma. Il giallo denunciato da Marco Bresolin sul nostro giornale, quei 29 milioni di dosi Astrazeneca misteriosamente “parcheggiate” alla Catalent di Anagni e probabilmente destinate con sovrapprezzo ad altri Paesi ricchi extra Ue, aspetta ancora una spiegazione convincente.

E si somma al colpevole ritardo nelle consegne degli altri vaccini, a partire da Pfizer. È vero che a suo tempo, per “nolontà” inglese, la Ue non ottenne poteri su una politica sanitaria comune. È altrettanto vero che in teoria, nella trattativa con i colossi farmaceutici, Bruxelles ha un potere negoziale maggiore di quello che avrebbero i singoli Stati. Ma è ancora più vero che in pratica, nella stesura dei contratti di fornitura, ha negoziato male sulle clausole e si è tutelata peggio sulle inadempienze. La tenue e tardiva autocritica di Ursula von der Leyen serve a poco. Pesa molto di più il mea culpa di Emmanuel Macron, nell’intervista che abbiamo pubblicato venerdì scorso. «Avremmo dovuto procedere più velocemente e in maniera più incisiva. Sui vaccini siamo stati troppo lenti, meno rapidi degli Stati Uniti». Ha ragione da vendere, il presidente francese, che parla di un’Europa che si muove come un diesel e manca di coraggio e di visione. Sui vaccini non ha capito né creduto che sarebbero arrivati sul mercato tanto presto. «Abbiamo avuto torto nel mancare di ambizione, di follia: nel dire sì, è possibile…». Può darsi che in queste parole di Macron risuoni l’eco di quello che i francesi chiamano lo spirito “jupiterien”. Ma serve anche quello, quando combatti un nemico invisibile che ti sconvolge la vita. Così, in questo angolo di Occidente irrisolto, la speranza fatica a soverchiare la paura. Si raffreddano gli entusiasmi atlantisti della prima ora: Joe Biden conferma l’idea di un “asse tra le democrazie” ma anche un suo “America First” vaccinale, con l’obiettivo di immunizzare 200 milioni di cittadini in 100 giorni e di offrirci tutt’al più qualche dose se avanza. Si riaffacciano gli euroscetticismi che speravamo sopiti: l’Austria di Kurz, con i Paesi baltici e le Repubbliche balcaniche, guida la Vandea vaccinale contro i piani di ripartizione stabiliti dalla Commissione. Si risvegliano persino i giudici della Corte di Karlsruhe, che oggi bloccano il Recovery Plan con gli stessi argomenti con i quali ieri contestarono il “Quantitative Easing”: la condivisione dei debiti pubblici non è prevista dai Trattati.

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